CAPITOLO 6

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NEW YORK

11:00 a.m.

Clark era... beh, il solito Clark. Il lungo trench color cachi che tentava, senza troppo riuscirvi, di nascondere il portentoso fisico, il cappello di feltro e gli occhiali tondi sul naso, che rendevano il suo viso ordinario. Gli occhi azzurri, splendenti a contrasto con il cielo celeste pallido dietro di lui, che lo fissavano con un misto di confusione ed esitazione.

Afferrò la sua mano tesa e si issò in piedi. La mano dell'uomo d'acciaio. Non c'era presa più salda che Bruce conoscesse, anche se si trattava di un'illusione nella sua testa.

«Signor... Wayne?» mormorò Clark, guardandolo fisso, come se fosse incerto se pronunciare o meno quel nome.

«Sì, Clark, sono io.» Bruce si aggiustò la giacca stropicciata, accertandosi che non si fosse rovinata con la caduta. Avvertiva un lieve formicolio sulla zona dell'anca destra dove aveva urtato contro il marciapiede. La cosa lo infastidiva lievemente, considerando che quelle sensazioni fisiche così veritiere avrebbero dovuto rappresentare un campanello d'allarme nella sua coscienza. Eppure era tutto così naturale, così ordinario.

«Sono piuttosto sorpreso che lei si ricordi il mio nome,» affermò il kryptoniano.

Bruce alzò gli occhi su di lui, ora un campanello d'allarme stava davvero suonando.

«Invero ne sono lusingato, ci siamo a malapena parlati all'inaugurazione del nuovo anno,» continuò l'altro.

«Perché non dovrei ricordare il tuo nome, Clark, noi...» Qualcosa lo spinse a tacere, qualcosa nello sguardo candido dell'altro. Clark Kent era sinceramente colpito dalla sua presenza, imbarazzato dalla situazione e non mostrava alcuna complicità.

«Vorrei farmi perdonare per questo maldestro incontro, ma, ehm, non posso offrirle un pranzo come quelli a cui lei è abituato, temo.» Fece un sorriso impacciato. «Sa, lo stipendio del giornalista non è proprio il massimo.»

Bruce si guardò intorno, con la mano aggiustò il nodo della cravatta, prendendo tempo. E se si fosse trattato di una sorta di simulazione? Un test? Se tutta quella strana messa in scena non si stesse svolgendo nella sua mente? E se Doc fosse in quel momento in attesa di sapere cosa mai sarebbe uscito da un incontro tra lui e il goffo giornalista del Daily Planet Clark Kent? Quell'idea generò scariche di inquietudine che gli fecero avvertire un vuoto allo stomaco. Di colpo gli parve che l'aria si facesse più cupa, che il rumore delle auto fosse più assordante e che gli edifici fossero diventati più incombenti sul vicolo.

«Non ce n'è alcun bisogno, ho già un brunch previsto questa mattina.» Avrebbe dovuto congedarlo, mandarlo via, lasciare che sparisse come una traccia di fango sotto la pioggia e tenere così la sua memoria al sicuro. Eppure istintivamente sentiva che Clark era la sua unica speranza di salvezza in tutto quell'inferno. La logica gli suggeriva di ignorare quell'incontro, l'istinto lo pregava di non lasciarlo andare.

Superman era sempre una speranza di salvezza. In qualunque circostanza o situazione tutti loro sapevano che potevano contare su di lui. Quella sensazione di urgente aspettativa nei suoi confronti nasceva unicamente dalla consapevolezza e dalla fiducia ormai sedimentata negli anni. Clark, quel particolare Clark che lo fissava con crescente disagio negli occhi, non era altro che una chimera incorporea, come l'intera New York che pulsava e strideva attorno a lui.

«Un caffè!» esclamò infine l'altro e il sorriso gli comparve sul volto. «Posso offrirle un caffè più tardi, nel pomeriggio, che ne dice?»

«Beh, io...» Mandalo via, andava ripetendosi. Digli di sparire, non parlare più con lui! «D'accordo.» Quando pronunciò l'assenso, pur controvoglia, un fremito all'altezza del petto gli fece capire quanto fosse instabile, nonostante tentasse di mantenere il controllo. Quella consapevolezza fu tutt'altro che incoraggiante, strinse le labbra nervosamente.

Un posto a cui appartengo (Somewhere I Belong)Donde viven las historias. Descúbrelo ahora