Capitolo 15

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BLUE

Quando vivi circondata da un perenne inverno, ogni minimo calore lo senti sulla pelle come una bruciatura. E ogni carezza come un graffio esposto ad acqua e sale.
Mi ridesto da un sogno, differente dal solito che mi tormenta. In questo, non c'era fumo, non c'era sangue, non c'era dolore. Nessuna paura ad attanagliarmi il cuore.
Sono un po' stordita, ma non mi sfugge che c'è qualcosa di diverso.
Non sono sola.
Un corpo caldo, solido, mi si preme contro la schiena come una parete protettiva. Una mano grande, con un anello vistoso, strizza il mio seno sopra il tessuto del pigiama, rischiando di spingerlo fuori dalla coppa. Il mio sedere preme contro una grossa erezione. Fiato caldo investe con costanza la mia nuca, un profumo delizioso mi avviluppa la pelle ed è come se ci avessi fatto il bagno per tutta la notte.
Non mi lascio cogliere dal panico. Non urlo come una pazza. Valuto attentamente i fatti della notte precedente.
Sono lucida, ricordo perfettamente ogni singolo dettaglio e cerco di stabilizzare il mio cuore, messo fin troppo alla prova nelle ultime settimane.
Con un quadro chiaro degli eventi vissuti, sollevo con attenzione la mano staccandola dal mio seno, avvertendone subito la mancanza e una sorta di protesta dalla controparte.
Sguscio via dalla presa ferrea dell'uomo a tenermi intrappolata e i miei occhi ancora un po' assonnati si posano svelti dall'altra parte del letto.
Isobel è sveglia. Non sta piangendo e non è spaventata. Si è girata sulla pancia e sta esplorando l'ambiente in cui si trova, circondata dalla montagna di cuscini a farle da scudo.
Noto che l'uomo sul nostro letto ne ha aggiunti altri alla pila. Che sia stato spinto dalla paura che lei potesse cadere? Non so dirlo. È stato premuroso da parte sua. Non me lo sarei mai aspettato dopo l'approccio iniziale con la mia Isobel. Ricordo ancora il modo in cui la guardava con quel terrore tipico di chi non ha mai preso in braccio un neonato e mi scappa un sorriso.
Prendo in braccio mia figlia, la quale si protende avvinghiandosi come un koala, e vado a cambiarle il pannolino nell'ampio bagno tutto piastrellato color sabbia e verde acqua; dotato di vasca spaziosa, un water, un lavandino e un mobile con un gran rifornimento di prodotti per la cura personale, asciugamani, confezioni di tovaglioli di carta, spazzolini e carta igienica.
Sbirciare mi fa sentire invadente, ma la curiosità come sempre ha la meglio sul buon senso.
Indosso indumenti comodi e faccio un breve bagno a Isobel nel lavandino. Lei si diverte a giocare con le bolle, regalandomi un altro momento di felicità.
Oggi le faccio indossare una maglietta di SpongeBob e una salopette. In testa una fascia gialla con un fiocco a renderla talmente tenera da dovermi fermare e immortalarla. «Questa la faremo sviluppare. È da un po' che non aggiungiamo polaroid al nostro album».
Metto in ordine il bagno. Una volta finito, facendo attenzione a non provocare rumore, mi avvio fuori dalla stanza.
Prima di uscire, mi volto e osservo Faron Blackwell, percorro ogni tratto del suo viso con lo sguardo. I suoi capelli tendenti al castano sono in ordine persino mentre dorme. Dopo essermi alzata, si è spostato verso la mia parte del letto. Tiene un braccio steso come se stesse abbracciando un sogno. Le sue labbra sono appena schiuse e il suo respiro regolare si diffonde intorno alla stanza come una melodia invitante.
Cerco di non farlo, ma ammiro lo stesso quelle vene a incrociarsi con l'inchiostro del tatuaggio che ha sul braccio, ogni singolo muscolo e solco sul suo addome scolpito, fino al ventre piatto e al bordo dei pantaloni della tuta che indossa.
Ha dormito a petto nudo con me, realizzo soltanto ora arrossendo.
Sono consapevole di poter sembrare una stalker. Ma lui se ne sta lì, ignaro di ogni mio pensiero e io non riesco a fare a meno di guardarlo, di assorbire quanti più dettagli possibili prima che si svegli e spezzi la magia facendomi sentire invisibile e piccola con la sua indifferenza.
Quando il mio vicino adolescente mi ha chiesto di fare attenzione e di non fidarmi di lui, ho esitato. Ammetto però di essermi incuriosita e di avere fatto qualche ricerca sul suo conto per non lasciare niente al caso.
Con mio sommo stupore non ho trovato niente di rilevante nei siti di gossip. In qualche modo è come un fantasma, uscito di scena misteriosamente. A tal punto da sollevare delle domande sul suo silenzio stampa.
Terrence aveva ragione sul mio conto, ho delle abilità nascoste e un debole per i casi irrisolti. L'ho scoperto di recente, ma non avevo ancora avuto modo di provare. Davanti al computer, ho aggirato facilmente il sistema per cercare più in profondità.
Ho scoperto che Faron Blackwell si occupa di tante cose. È colto, attento, a tratti discreto. Ha fatto svariati investimenti e lavora in tanti settori diversi tra loro. Un vero filantropo che non ha mai cercato di mettersi in mostra. Ma non c'era niente sulla sua vita privata. Nessun dettaglio relativo a un fidanzamento o a una storia. Nessuna traccia di un amore passato o presente.
Mi domando se sia stato proprio Terrence a far sparire qualsiasi informazione o foto su di lui da tutto il web. Se questo lavoro di cui mi ha parlato, prima di ritrovarci in una trappola, riguarda solo la squadra o abbia a che fare con qualcos'altro di pericoloso.
Anche se è impossibile non notarlo quando indossa quegli abiti costosi per dichiarare al mondo qualcosa, è altro quello ad attrarmi realmente di Faron.
Lui ha qualcosa dentro, oltre quel guscio duro a coprire la sua persona.
Quest'uomo per quanto complicato continua a scucirmi di dosso fili che non pensavo potessero strapparsi. È un nodo, stretto e capace di lasciare il segno.
Ciò che più mi inquieta è il fatto che la sua presenza, sia per me familiare.
Eppure non l'ho mai incontrato. Non ho mai avuto niente a che fare con quest'uomo arguto e a tratti duro, ma così irresistibile da rendermi nervosa ogni singola volta in cui lo becco a fissarmi.
«Non andare», mugugna.
Impalata sulla soglia, barcollo lievemente, colpita da una fitta.
Più tento di frugare tra quei ricordi, più sembrano agitarsi e mettersi alla rinfusa. Sfuggono via labili eppure preziosi.
Gemo di dolore e indietreggio.
La sua voce... ha innescato qualcosa.
Cerco di riempire quel buco che si è creato, senza risultato. Ma cosa c'entra lui?
Confusa, in parte anche scossa, raggiungo la cucina. Con Isobel in braccio le preparo un biberon, poi riempio il borsone con quello che mi serve per affrontare questa giornata che sarà lunga e piena di impegni. Staremo infatti fuori per parecchio tempo e non voglio dimenticare niente.
Un minuscolo raggio di sole filtra dalle ampie vetrate. Mi sporgo e osservo ammaliata la vista aggirandomi per il soggiorno ancora da ammobiliare. Infine, incapace di resistere, mi ritrovo in piedi di fronte alle enormi finestre a tutta altezza, dove ammiro il bel panorama che mi si staglia davanti.
Non siamo poi così distanti dalla cittadina, trovo però confortante questo posto. Come se fosse una sorta di fortezza a tenere tutto lontano dal pericolo.
«Non è bello qui?», sussurro.
Dopo aver dato da mangiare a Isobel e controllato ancora una volta di avere tutto, salgo sull'ascensore e premo il pulsante per il piano terra, augurandomi di non fare eccessivo rumore e di riuscire a sgattaiolare da questo posto prima di sentirmi così a mio agio da non volermene andare.
Non è casa mia, mi dico. Non è il mio posto, continuo passeggiando lungo il viale adibito ai pedoni.
Per strada ci sono già i primi lavoratori, una donna con il suo cane e incontro anche un corridore.
Nessuno mi importuna o si ferma per vendermi della roba o aggiornarmi su qualche pettegolezzo. Nessuno mi guarda o mi giudica. Qui sono solo una mamma che sta portando la sua bambina al nido prima di mettersi al lavoro.
Dopo circa un quarto d'ora, raggiungo l'ospedale.
La camminata non è stata poi così faticosa, ma con una bambina in braccio e un borsone pesante in spalla, posso ammettere di non avere fiato quando varco le porte scorrevoli e vengo fermata per scannerizzare il codice del mio badge.
Traffico dentro la tasca della giacca alla ricerca di questo.
«Permetti?»
Sollevo la testa e Ace Rose, un sorriso dolce e tutto fossette, mi toglie dalla spalla il borsone permettendomi di recuperare il badge da mostrare alla guardia, la quale mi fa passare augurandomi una buona giornata.
«Grazie, non era necessario», provo a riprendere il borsone ma lui, mettendosi da parte con quest'ultimo in spalla, mi fa cenno di procedere.
«Sei consapevole che potrebbero nascere dei pettegolezzi?»
Affatto preoccupato, totalmente nel suo ambiente, preme il pulsante di chiamata dell'ascensore. «E tu sei consapevole di non dovere scappare quando hai delle guardie a proteggerti?»
Merda. L'ha avvisato? Quindi... alla fine si è svegliato. Come ha reagito?
Ormai è inutile mentire.
«Non ero a casa mia e ho del lavoro da svolgere. Se non riescono a sostenere i miei ritmi, non è un problema mio. E tanto per essere chiari, non l'ho chiesto io».
Forse sembro ingiusta e irriconoscente, ma non voglio che mi sovrastino. Non posso permettergli di condizionarmi. Ho sempre vissuto secondo le mie regole e non intendo cambiare i miei piani.
Ace sorride di fronte alla mia ostinazione, alla quale non ribatte, preme solo il pulsante sul pannello per l'ultimo piano. «Per fortuna che ci sono io a tenerti d'occhio», esclama seguendomi verso il nido.
Isobel, come se avesse capito che sto per lasciarla, si agita e prorompe in un pianto isterico.
La calmo in fretta, anche se il mio cuore si strizza e soffre insieme a lei per il fatto che passeremo gran parte della giornata senza l'altra. È ancora troppo piccola per questo.
«Ehi, va tutto bene. La mamma tornerà durante la pausa», le bacio la tempia quando mi si avvinghia al petto. «Non permetterei mai a nessuno di portarti via da me. Lo sai».
«Puoi sempre chiedere...»
Scocco un'occhiataccia a Ace. «Questa signorinella deve iniziare già da ora a cavarsela anche senza di me», lo dico con un grosso groppo in gola e la consapevolezza che potrebbe accadere.
Perché la vita prende strade imprevedibili e ho capito che il tempo è un granello di sabbia dentro una clessidra già capovolta.
Ignaro della verità, Ace, sporge la mano e accarezza il viso triste di Isobel prima di prenderla dalle mie braccia e farla sorridere sollevandola come piace a lei.
«Hai una mamma davvero forte. Adesso permettiamole di correre al suo tirocinio. Ho saputo che il suo supervisore non accetta ritardatari», mi fa l'occhiolino e con mia figlia in braccio entra al nido lasciandola alle cure delle volontarie.
Prima di andarsene, dice loro qualcosa. Sono lontana per sentire, vedo però il modo in cui cambiano atteggiamento e si adoperano in fretta per la mia bambina.
«Che cosa hai detto a quelle ragazze? Sembravano terrorizzate», domando aspettandolo fuori, sempre più piena di domande su queste persone che continuano a prendersi cura di me per ragioni che non riesco proprio a comprendere.
«Sei ancora qui? Non eri tu quella che aveva paura dei pettegolezzi?»
Mettendomi a braccia conserte, e nonostante sia sul punto di replicare d'impulso, tengo a freno la lingua e non cedo, attendo solo una sua spiegazione.
Afferrandomi per le spalle mi fa girare verso l'ascensore. «Ho messo in chiaro che Isobel deve essere trattata con i guanti bianchi. E ho aggiunto che avrai il permesso di stare con lei quando sentirai il bisogno, senza orari».
Mordo il labbro con le guance rosse per l'imbarazzo e la gratitudine. Questo potrebbe creare problemi e potrei scommettere che quelle ragazze stiano già facendo stupide congetture su di noi.
«Perché lo fai?», mi volto e lui si ferma.
È molto alto e devo guardarlo inclinando un po' il capo.
«Perché mi piaci Blue Thorne», con nonchalance, dopo avermi dato un colpetto sotto il mento con una nocca, prosegue lungo il corridoio.
La sua espressione sincera mi guida verso uno stupore che si avviluppa sottopelle.
Fa sul serio. Non è uno scherzo.
Potrei fare una battuta e togliermi dall'impaccio, rifletto, ma rimango impalata come una scolaretta, imbarazzata e incapace di affrontare l'uomo che mi ha provocato una simile reazione.
Alla fine, per quanto io riesca a trattenermi, vedendolo a debita distanza e trovando il coraggio, cedo.
«Ti riesce bene, sai».
«Cosa esattamente?», chiede divertito.
«Dar sfoggio delle tue abilità. Sei un manipolatore e un seduttore. Scommetto che devi aver fatto molta pratica per riuscirci senza tradirti».
Inizialmente mi studia rimanendo nel suo silenzio e a distanza. «Devo supporre che stia funzionando».
Sto già negando. Ma lo faccio talmente in fretta da tradirmi da sola. «No», aggiungo, come se non bastasse essere rossa da capo a piedi per dargliene conferma.
«Mi trovi attraente».
«Che tu lo sia non è un dato di fatto? Non hai di certo bisogno del mio giudizio per pompare il tuo ego».
Torna sui suoi passi. Si sporge all'altezza del mio orecchio. Non controlla nemmeno se qualcuno ci sta guardando. È spontaneo e non mi sta facendo sentire un segreto, solo la forza del suo flirt su ogni parte del mio corpo.
«Su questo dissento», mormora. «Potrei volere il tuo giudizio», si allontana di nuovo. Prima di aprire una porta e sollevare il cercapersone, dice: «Non fare tardi. Odio davvero chi non rispetta le mie regole».
Raggiungo lo spogliatoio un po' accaldata. Come sempre è già pieno di chiacchiere. Alcune, ben presto, lanciano acqua ghiacciata sui miei bollori.
«L'hanno davvero visto interagire con quella rozza?»
Mi faccio attenta e fingo di sistemare le mie cose nell'armadietto nel caso in cui dovesse entrare qualcuno e accorgersi della mia presenza dietro la fila di armadietti. 
Mi tremano le mani e più volte mi mordo il labbro per non aprir bocca e difendermi.
«Non dovresti chiamare così una collega. Magari lui la stava rimproverando per essere arrivata con qualche minuto di ritardo».
«L'addetta alle pulizie che conosco mi ha riferito che lui si è fermato ad aiutarla. Era come se fosse lì ad attenderla».
«L'avrà vista in difficoltà. Insomma, ha una figlia e...»
«E non dovrebbe attirare l'attenzione di chi non è al suo livello. Le ragazze che lavorano come volontarie al nido hanno iniziato a diffondere la notizia che fossero insieme. Poco fa le ha persino minacciate».
«Sul serio?», sgrana gli occhi la ragazza dai denti sporgenti.
«Quella bambina non deve essere toccata», mima le parole di Ace con arroganza. «Sentite, non è come noi. È entrata qui solo perché ha ricevuto la carità da parte delle nostre famiglie. Sapete bene che durante le serate di beneficenza sborsano un mucchio di contanti per fingere che ci sia un posto per i più sfortunati. Sono sicura che lui stia facendo la stessa cosa», sposta dietro la spalla i capelli.
«Non ne sarei tanto sicura. Le ragazze mi hanno riferito che avessero un atteggiamento, come dire, intimo».
Da quando mi sono svegliata dal coma, a volte, ho come l'impressione di vedere il mondo sotto una lente diversa. La gente non mostra nessuna delicatezza sulle cose che fanno male.
Chiudo l'armadietto e a sguardo basso supero le due che si sono accorte della mia presenza, ma che non hanno fatto in tempo ad avvisare le altre. O non hanno voluto, desumo.
Tanto anche se le affrontassi continuerebbero lo stesso a sostenere le proprie tesi. Io sarò sempre quella povera, quella da sfamare, da proteggere, da biasimare, da giudicare. Sono quella che ci prova con il capo per ricevere attenzioni e una posizione.
Fuori dallo spogliatoio controllo i turni e inizio la mia giornata con una rabbia che alimenta la mia determinazione.

Brutal - Come graffio sull'animaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora