Capitolo 16

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FARON

Per tutti gli altri sono sempre stato quello con la testa sulle spalle, l'uomo disponibile al dialogo, alla contrattazione, in un certo senso pacifica, il mediatore in situazioni sgradevoli e ad alto rischio. Ma sono pur sempre un Blackwell, preposto al comando, pronto ad affrontare qualsiasi pericolo battendolo con l'ingegno. Non hanno però visto la doppia facciata, quella tenuta ben nascosta. Nessuno si è mai avvicinato a essa.
Per questa ragazza, invece, che cosa sono davvero?
Guido in direzione del mio alloggio, nonostante sia tentato più volte di fare inversione di marcia al primo incrocio e trascinarla a casa di Dante o in hotel. Tutto perché sento di dover tracciare una linea di confine. Una distanza tangibile.
E mentre rifletto su questo, facendo molta attenzione alla guida, alle auto che ci superano o si accodano; dopo aver fatto più di una volta il giro per le strade per depistare in caso di inseguimento chi potrebbe minacciarci, raggiungo il parcheggio sotterraneo del palazzo fermandomi al mio posto riservato.
La ragazza non ha parlato durante tutto il viaggio. Mi volto nella sua direzione e mi rendo conto che si è addormentata. Tiene la testa appoggiata al vetro del finestrino, la cintura tesa sul petto e addome, le mani in grembo.
«Deve essere stata una giornata tremenda per te, kelebek».
Istintivamente mi volto dietro per controllare come sta la scimmietta. La trovo sveglia. Non appena si accorge che la sto guardando, mi rivolge quel sorriso sdentato spiazzante e che non credo di meritare. Non da una persona così piccola e ancora non del tutto consapevole dei pericoli che il mondo nasconde.
«Non provare a fregarmi, scimmietta, e andremo d'accordo», facendole l'occhiolino, apro la portiera, le sgancio le cinture ad assicurarla al suo sedile e la prendo in braccio. Giro intorno al SUV e ci fermiamo di fronte allo sportello anteriore.
La ragazza si è appena riscossa, sta sbadigliando e si sta stiracchiando stralunata.
Picchietto le nocche sul vetro e lei apre direttamente lo sportello. «Avevi intenzione di svegliarmi o mia figlia ti ha rapito con la sua naturale bellezza?», sorride a quest'ultima e prendendola in braccio la riempie di baci facendola ridere.
In un attimo è passata dall'essere assonnata e stanca alla super-mamma. Come ci riesce? È sempre stato così per lei? Ha sempre dovuto fingere di non essere a pezzi, ha raccolto quelle poche ore di sonno facendosele bastare senza mai rammentare di poter avere bisogno di aiuto?
Confuso dai miei stessi pensieri, le faccio cenno di salire. Riprendo la scimmietta in braccio, e come se mi conoscesse, quest'ultima, dapprima picchia la manina sulla mia guancia, poi si preme contro il mio petto emettendo dei gorgoglii mentre chiude gli occhi chiari, come quelli della sua mamma.
«Hai superato la paura. E le piaci», esclama sistemandole la salopette e la fascia per capelli che in auto la piccola scimmietta si è tolta da sola. Inutile dire che non ho osato rimettergliela per paura di farle male.
«Ho avuto a che fare con gente pericolosa, più di una scimmietta che sbava».
«Dici? Secondo me potrebbe terrorizzarti comunque».
Saliamo nel mio appartamento, accendo tutte le luci della zona giorno indicandole la cucina, dove porta le confezioni con gli avanzi del ristorante che ha recuperato dal SUV subito dopo che la scimmietta mi si è sistemata comoda tra le braccia.
In aggiunta, vi è un cartone con la pizza che ho ordinato prima che fuggisse. Sollevo il coperchio e ne prendo un trancio adagiandolo su un tovagliolo che riesco a strappare con una mano sola dal rotolone.
L'odore del basilico fresco si diffonde nell'aria, rendendo l'ambiente, ancora non del tutto sistemato, meno deprimente.
Cullando la scimmietta, in soggiorno, di fronte alle vetrate, mangio in completo relax.
«Pizza, vista e pettorali, così la vizi».
Abbasso lo sguardo sulla scimmietta. Ha un sorriso tenero stampato sulle labbra piccole e a cuore, gli occhi chiusi. Sembra così serena...
È possibile che lo sia tra le mie braccia? Che sia io a infonderle tutto questo?
«Finché non scoppia a piangere posso continuare a viziarla. Finora non si è lamentata».
Un'ombra le attraversa il volto. «Non voglio che si abitui. Io non posso darle tutto questo comfort, anche se per lei farei di tutto», seduta sullo sgabello ci osserva bevendo un po' d'acqua. «Non hai dei figli, ma di sicuro lo stai facendo nel modo giusto. Sembri portato», cambia subito espressione e argomento, addentando una forchettata di lasagna, leccandosi le labbra per togliere un po' di passata di pomodoro.
È un gesto così elegante fatto da lei da stuzzicare il mio desiderio.
Non sono pronto all'interesse che mi raggiunge e mi si insinua dentro come un pensiero ossessivo. Né mi sento al sicuro di fronte a quello che provo nell'incrociare i suoi occhi ed essere lì riflesso in quelle pupille circondate da iridi che annegano ogni mio tentativo di salvezza.
«No. Non ho figli», replico monocorde.
Non dovrebbe succedere, ma ogni cosa diventa cupa e rischio di tornare verso quei pensieri che da mesi sto cercando di domare insieme alla rabbia e al risentimento che fanno la lotta dentro la mia testa.
A quanto pare, sto attraversando una fase del lutto, come predetto dal ciarlatano pagato profumatamente da Dante. Secondo la sua attenta analisi, avrei dovuto affrontare la morte e di conseguenza farlo per gradi. Evidentemente qualcosa è andato storto perché sono fermo alla fase del rancore. Ho l'impressione di essere sempre lì lì per scoppiare, dare sfogo di tutta la collera che si è accumulata per mesi e mesi e che ho sepolto come polvere sotto il tappeto lasciandomi andare ai vizi fino a consumarmi.
La verità è che sono troppe le emozioni che mi ribollono dentro, temo di non riuscire a contenerle tutte, di non essere in grado di affrontare e guardare in faccia ciò che mi ha fatto male.
«Ne hai mai voluto uno?»
Ci pensavo, e anche se dicevo di non voler mettere al mondo un figlio senza prima avere risolto i miei casini mentali, la verità è che volevo essere sicuro di avere la persona giusta al mio fianco.
Questa consapevolezza mi sbatte in faccia e deglutisco a fatica l'ultimo boccone del trancio di pizza che rischia di andarmi di traverso.
Mi avvicino al cartone e ne prendo una seconda fetta. Non ho mangiato per tutto il giorno, preso com'ero a proteggere la ragazza, a starmene appostato e in attesa. A rimuginare sulla lite con Dante dopo averlo chiamato e avergli fatto presente che era uscita di casa senza di me. Inutile descrivere la reazione di mio fratello. Nella testa mi rimbombano ancora le sue parole piene di rimprovero e delusione.
«Avere una famiglia... non è il sogno di tutti?»
Come se avesse capito il mio disagio dal semplice cambiamento del mio tono di voce, scivola dallo sgabello e con la fetta di pizza tra le labbra, prova a prendere in braccio la scimmietta, la quale ridestandosi mi si avvinghia con più forza strillando come se stessimo giocando.
«Lasciala a me. Non è compito tuo sopportare anche questo», esclama biascicando.
Do un morso al trancio spostandomi rapidamente di fronte alla vetrata.
Crede che per me sia una questione di sopportazione? A dire il vero mi sta piacendo, anche se non lo ammetterò mai apertamente.
«Tecnicamente sono ancora in servizio».
«Dopo ieri non pensavo...»
«Cosa? Che ti avrei lasciato libera di metterti nei guai? Prendo seriamente i miei doveri».
In un primo momento carico di tensione abbassa lo sguardo.
Non mi piace quando tenta di fare la sottomessa. So che non lo è affatto.
Un passo dietro l'altro e la raggiungo. Le sollevo la testa per il mento, obbligandola a guardarmi negli occhi.
Non potrei mai trovare un termine corretto per descriverla. Blue Thorne è capace di far risuonare l'aria intorno a noi di vita.
Si avvicina di un passo e vorrei dirle di non farlo. Di non confondermi maggiormente.
«Perché continui a trattarmi come un lavoro?»
«Sai, a volte sono convinto che ti piaccia soffrire», la mia voce esce un po' più brusca rispetto ai miei calcoli iniziali.
«E per questo non merito nessuna gentilezza da parte tua?»
«Conosci già le risposte. Sai che non sono la persona giusta. Eppure ti ostini...»
Fa una mossa inattesa, mi lascia proprio senza fiato e parole. Spazza via ogni mio tentativo di autocontrollo, dapprima avvolgendomi le braccia intorno al collo nonostante tra noi ci sia la bambina, poi premendo le labbra sulla mia guancia. Non indugia molto ma è abbastanza.
Cazzo!
«Mi ostino a combattere contro i tuoi demoni perché hai bisogno di un po' di pace».
Me lo dice con una tale naturalezza da non riuscire a fissarla negli occhi perché potrei crederci. Potrei credere che ci sia qualcuno in grado di ascoltarmi quando urlo in silenzio che odio questo dolore profondo che non dà pace.
Dovrei sentirmi in imbarazzo. Non ho più l'età di un ragazzino e sono abbastanza adulto da aver superato la fase delle prime volte. Dovrei persino essermi abituato a certe attenzioni da parte delle donne. Solitamente ne ricevo parecchie, e non ho mai apprezzato più di tanto perché mi rendo conto solamente adesso che non c'era niente di paragonabile. I gesti di Blue Thorne hanno quel qualcosa di significativo, incisivo e improvviso. Sono una sorpresa che scarto volentieri, anche se con doveroso distacco.
Quando le sono vicino di solito si irrigidisce. Non dico niente notando la sua reazione attuale, e lei finge di non essere stata toccata da una scarica di brividi; che il rossore che indossa su quella pelle delicata non è causa mia.
«Sembri stanca. Ti ho sfamata quindi adesso devi andare a dormire».
Il suo sguardo si sposta sulla scimmietta. Le piccole labbra schiuse, un rivolo di saliva che si allarga sulla mia camicia e gli occhi che si muovono sotto palpebre pesanti, con ciglia lunghe e incurvate ad accarezzarle le guance piene.
«Hai intenzione di ridarmi mia figlia o sei disposto a tenerla in braccio per tutta la notte? Prima o poi avrà bisogno di essere cambiata», mi avverte. «Parlo di pannolini  sporchi, con carico puzzolente».
«Seguirò un tutorial», minimizzo. «E credo di aver sentito odori ben peggiori di quello emanato da un pannolino. Continui a sottovalutarmi, kelebek», replico con nonchalance, nonostante sia sul punto di ridarle l'ordigno, fin troppo tranquillo per i miei gusti, nonché adesso impegnato a giocare con il mio anello.
Le mie parole la sorprendono. Accarezza la testolina della figlia. «Non posso lasciartelo fare».
«Perché?»
«Hai fatto abbastanza per noi. Anche tu hai bisogno di riposo».
«Non ci casco, sai. Farò la guardia e domani ti porterò in ospedale».
Si morde il labbro, tenendo la mano su quella minuscola della bambina, adesso addormentata contro il mio petto, tra le mie braccia.
«Non scapperò. Ho imparato la lezione di oggi».
«Farò lo stesso la guardia», le faccio cenno di andare.
Lei esita guardandomi insieme alla sua bambina. Non sa se lasciarmi sola o insistere.
Sbuffo prendendo per lei una decisione e mi incammino in direzione della stanza.
«Cosa fai?», mi segue piena di domande.
«Ti accompagno e metto a letto la scimmietta. Così non dubiterai di me».
Si ferma. «Io... non dubito di te. Ho capito che ti prenderai cura di noi».
Inarco un sopracciglio in maniera tanto fulminea che quasi scoppio a ridere di me stesso. «Certo, e Babbo Natale esiste».
Avvampa ma non ribatte, intuendo di aver perso lo scontro.
Entro in camera, sistemo i cuscini come la notte scorsa e vi depongo la scimmietta.
La ragazza corre a sistemarle una copertina giallo pastello e un peluche, il quale trova subito asilo tra le sue minuscole braccia.
Mi avvio alla porta. Ho intenzione di controllarla e lo farò dal mio studio. Non voglio farmi fregare di nuovo.
«Far?»
«'Notte, kelebek».
Non ho nient'altro da aggiungere e lei non avrà la possibilità di tentarmi.

Brutal - Come graffio sull'animaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora