Can you save my heavydirtysoul?

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Si alzò dal divanetto in pelle, per andare a prendere da una mensola due bottiglie di vodka.

Me ne porse una, che afferrai titubante, e l'altra la tenne in grembo, mentre si sedette di nuovo davanti a me.

«Bevi.» Mi disse, spronandomi con i suoi occhi color pece.

«Va bene...» Mormorai. Presi il tappo della bottiglia sull'estremità, tirandolo verso l'alto per stappare l'oggetto di vetro. La guardai ancora un po, indecisa sul da farsi. Alla fine decisi di prenderne un sorso.

Mandai giù tutto d'un fiato e la gola bruciava. Mi sentivo stordita dal suo sapore, con retrogusto abbastanza amaro. Oltre questo, un calore mi invase la pelle in tutto il corpo.

«Ti piace?» Domandò, mentre anche lui prendeva un sorso dalla sua bottiglia, anche se più lungo del mio.

«É buona direi, anche se non posso confrontarla con niente vista la mia inesperienza.» Dedussi, mentre lui mi faceva cenno di prenderne un altro sorso.

«Non far caso al giramento di testa, dopo qualche minuto non ci baderai più.» Mandai giù ancora un po di quel liquido, sentendo in effetti la testa girare.

Guardai Calum, cercando un punto del suo viso su cui concentrarmi mentre il giramento di testo ancora persisteva.

«Parliamo.» Disse dopo un po, mettendosi più comodo sul divano.

Lo imitai, sentendomi più a mio agio con lui e la casa.

«Di cosa?» Mi guardò, scrutando il mio viso.

«C'é qualcosa che ti fa salire un senso di disprezzo, di nausea. Non ne hai ancora mai parlato con nessuno, e so per certo che non lo faresti nemmeno oggi, se non fosse per l'alcol nelle tue vene. Parlami di questo, forse un giorno io potrò fare lo stesso.» Sentenziò, facendomi arrossire di colpo.

Presi un altro sorso, cercando di mandar giù anche la timidezza.

«Cosa vuoi sentirti dire, Hood? Sono solo una ragazza che viene reputata un sette, niente di più, nella di meno. Sono un sette, ecco cosa disprezzo. Disprezzo quel numero, quel numero che sembra si sia tatuato sulla mia pelle. Sono un sette, per la società e per tutto il resto.» Abbassai la testa, rigirandomi il tappo della mia bottiglia tra le mani.

«Cosa vuol dire?» Chiese, non capendo proprio a pieno il mio ragionamento. Sospirai, sapendo che da lì a poco avrei affrontato uno dei miei punti deboli.

Ero fatta da molti di questi, era come se la mia essenza fosse fatta da questo. Da punti deboli.

«Fin da quando sono più piccola ho avuto qualche problema con questo numero: Alle elementari non riuscivo a capire la matematica, erano solo numeri su numeri ed io sono più per l'italiano e la letteratura. Il massimo che potevo prendere era un sette, stessa cosa adesso. La maestra mi prendeva in giro dicendomi quanto io fossi stupida, ed è anche per questo che adesso sono così timida: Ho paura che possa succedere di nuovo. Crescendo, quel sette ha fatto parte anche del mio aspetto fisico. Quando si giocava ad obbligo e verità, i soliti idioti facevano domande del tipo “da uno a dieci, Heather cosa è per te?” ed io ero quel sette, dato per non risultare cattivi. Non ero mai un otto, ma sempre lo stupido sette, detto per non ferire.» Mi guardò come se stessi dicendo qualcosa di inverosimile, qualcosa di non sensato.

«Il sette è un numero carino, perché lo odi così tanto?» Cercò di scavare con i suoi occhi più affondo, pretendendo dalla mia anima e dai miei occhi, qualcosa in più. E i miei erano troppo chiari e deboli, per resistere a tale sguardo.

«Oltre ad essere una ragazzina che veniva da Perth, ho avuto altri problemi. Si poteva dire che la mia famiglia fosse una di quelle felici, che non si scomponeva mai. Ma il fatto è che era perennemente scomposta, e gli altri non se ne accorgevano neanche più, ormai. Cercavo di fare del mio meglio per trovare qualcosa per cui i miei genitori sarebbero stati fieri. Soprattutto mio padre. Cercavo di prendere buoni voti a scuola, cercavo di lasciare da parte le uscite con gli amici per fargli capire che io ero diversa. Ma per lui ero sempre qualcosa in meno. Ero un sette, che non si sbilanciava mai. Se tornavo a casa con una buona notizia, mia madre era fiera di me, me lo diceva sempre ed io la ringrazio ancora per questo. Mio padre no invece:  lui non mi rendeva mai soddisfatta ed io ero perennemente sconfitta. Io volevo essere qualcosa di più di quel sette, un qualcosa in più per mio padre. Capisci? Ero diversa, ma mai in meglio.» Finii con voce spezzata, mentre prendevo la bottiglia tra le mie mani, bevendo ancora un po del suo liquido.

Non facevo più caso ai miei occhi che bruciavano, alle lacrime che involontariamente scendevano sulle mie guance pallide. Non facevo più caso a niente.

«Tu non sei diversa in peggio, Heather. Puoi essere un otto quando vuoi.» Scossi la testa, facendo un altro singhiozzo, tra i tanti che non riuscivo più a fermare.

«Io vorrei essere un otto come mi sono imposta da quando ero bambina, ma non ci riesco. Sono diversa e non posso cambiare questo, perché sono io. E la me che sono si è sempre fermata a quel sette. Sono come un coniglio nella gabbia dei leoni. Sono come una mela nel MCDonald's. Chi mi salva da quei leoni, e chi potrebbe mai mangiare un frutto quando si trova nel mondo del cibo spazzatura? Neanche io sceglierei quella piccola mela.» Lui mi abbracciò, cercando di confortarmi.

Ma non fece altro che aumentare il mio disprezzo verso me stessa. Mi sentivo ridicola, pensare che neanche lui volesse scegliere la piccola mela che ero, mi faceva sentire male ancora di più.

«Ho provato ad essere migliore per me, per tutti. Ma non ci riesco. È come se il mio corpo per raggiungere quel piccolo passo, faccia uno sforzo che non gli è permesso. Voglio esserlo, ma non posso. E mi sento inutile.» Sospirai, cercando di calmarmi mentre stringevo in un pugno la sua maglia bianca.

«E mi sento ancora più ridicola adesso, mentre tu stai provando pena per me. Mio padre vedendomi in questo stato, direbbe che sono una buon annulla. Che non servo a niente, se non a far perdere tempo. E quello che stai facendo tu adesso con me, è esattamente questo. Stai perdendo tempo a cercare un posto per questa piccola mela.» Sussurrai, mentre lui mi dava un bacio tra i capelli, ormai scompigliati.

«Non sei niente di tutto questo, ed io non provo pena verso te. Provo ammirazione. Sei forte, hai un animo determinato. Se tuo padre non ti vede per come sei, lasciamolo nella sua ignorante convinzione. Tu sei meglio di questo, sei meglio di lui. E non serve un suo apprezzamento per fartelo capire. Hai una mente brillante, ed hai tutto quello che lui non capirà mai. Tua madre sarebbe ed é fiera di avere una figlia come te, lo sento. E ricorda che le mele si trasformano in succo di frutta, e tutti amano il succo di frutta.» Ridacchiai leggermente, guardando in quei pozzi neri.

Rischiavi la vita, in quei due fari a luci spente. Non vedevi più nulla, se non te stessa nel suo riflesso. E sentivo che anche io potevo essere accettata, mentre mi specchiavo nei suoi occhi. Erano un pozzo, con acque profonde. E io speravo solo di annegarci, di non trovare vie di uscita.

«Puoi salvare la mia pesante e sporca anima?» Sussurrai, cercando di trovare un conforto nella risposta che non sarebbe mai arrivata. Il sussurro rimase lì, nell'aria che sapeva di vodka.

Non disse niente, mentre ci staccammo dal disperato abbraccio.

Mi stesi sul divano, mentre lui era in piedi davanti a me.

Sentivo che l'alcol mi aveva fatto effetto, visto che non avrei mai detto cose così intime, senza quest'ultimo. Era come se io mi fossi messa a nudo davanti a lui, che gli avessi aperto il mio armadio degli scheletri. Calum ci ballava, senza giudicarmi ed io lo lasciai fare, in quella danza triste e disperata.

Chiusi le palpebre, sentendomi più stanca.

«Cercherò di farlo, cercherò di capire come salvarti.»

𝙤𝙣𝙚 𝙢𝙤𝙣𝙩𝙝//𝙘𝙩𝙝. Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora