Tredici.

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"We don't have to be ordinary, make your best mistakes. 'Cause we don't have the time to be sorry, so baby be the life of the party."

Shawn, senza smettere di cantare, mi porse la mano. Gliela strinsi e mi tirò verso il centro del palco.

Non c'era ancora nessuno, tranne i tecnici del suono e delle luci.

"Aspetta che finisca la canzone." Disse, facendomi sedere alla punta del palco.
"Tranquillo, non scappo." Risposi e rimasi lì ad ascoltarlo, ad ammirarlo specialmente.

Il modo in cui si muoveva, il modo in cui camminava, il modo in cui la vena sul lato sinistro del collo emergeva quando sforzava un po' di più la voce, il suo diventare rosso, le gocce di sudore sulla fronte che risplendevano alla luce.

Lui.

Ogni parte di lui, forse per il modo in cui si muoveva, forse perché era lui, suscitava qualcosa in me.
Qualcosa di bello. Qualcosa di speciale. Qualcosa di ancora insensato.

Finita la canzone, il canadese venne da me.

"Ti è piaciuto l'arrangiamento?" Chiese.
Problema: non avevo ascoltato nulla della canzone in sé.
"Sì, dal vivo rende molto di più fatta così." Risposi.

Mi sorrise. Questo stava a dire che mi ero salvata. Non sarebbe stato carino dirgli che lui mi distraeva da qualsiasi altra cosa.

"Le prove sono finite. Alle sette e mezza ci vediamo tutti dietro le quinte prima di iniziare." La voce, storpiata dal suono di un microfono scadente, risuonò tra palco e backstage.

"Bene, ora possiamo andare."
"Dove dobbiamo andare?"
"Non dirmi che preferisci restare qua seduta sul palco duro invece che andare nel mio camerino, sul mio divano."
"Hai un divano nel camerino?" Chiesi incredula.
"Certo!" Esclamò ridendo.
"Vieni, dai." Disse prendendomi per mano, noncurante delle altre persone dello staff che ci guardavano.

No promises. [S. M.]Where stories live. Discover now