Capitolo 69

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Dicembre 1944

Hanno chiuso la fabbrica di Monowitz.

Non sappiamo cosa stia succedendo: sappiamo solo che qualcosa bolle in pentola.

Quando ci siamo diretti questa mattina a lavorare, ci eravamo immaginati di affrontare un'altra estenuante giornata di lavoro, ma i cancelli sbarrati e gli uomini di guardia ci hanno gettato in uno stato di disperazione.

Non sappiamo cosa vorranno fare di noi, so solo che temo il giorno in cui qualcosa di irrimediabile accadrà.

Intanto, io e Fred siamo sdraiati sul letto, stanchi più che mai, ma anche contenti di non dover affrontare altri sforzi notevoli.

«Io penso che ci porteranno là dentro. Non credo che avremo pace ancora per molto» osservo.

Continuo a pensare al fumo dei comignoli, ai miei cari rinchiusi là dentro e alla nostra debolezza, e da una parte la mia anima birichina prova un senso di curiosità verso il campo di Auschwitz.

«Magari qualcuno ha scoperto i loro piani. Io sono fiducioso: credo che avremo finalmente la pace tanto agognata» risponde Fred.

Provo un senso di invidia: vorrei con tutto il cuore avere la sua positività, ma il mio costante pessimismo mi pervade.

Mi siedo sul letto, facendo dondolare le gambe.

Il nostro compagno di letto non si vede da un po': è sempre stato burbero e scontroso, ma spero non gli sia successo niente.

Senza qualcosa da fare la fame si fa sentire ancora di più: il mio stomaco brontola rumorosamente, e il pensiero che dovrò attendere ore e ore per avere una zuppa annacquata con del pane raffermo mi getta in uno stato di disperazione.

Paradossalmente, ora provo tanta noia: Friedrich tenta di riposarsi, mentre io mi giro i pollici.

Alcuni parlottano, altri si sdraiano, ma io non faccio altro che autocommiserarmi, perché il mio corpo, che si è andato restringendo nel corso del tempo, richiede cibo decente, e la noia mi uccide.

La baracca è insolitamente vuota, e temo che la malattia si stia diffondendo a vista d'occhio.

Ho sentito dire che nel campo una nuova forma di tifo, esantematico, se la memoria non mi inganna, sta facendo strage di uomini, e che si sconsiglia l'utilizzo dei bagni comuni per evitare che le vittime aumentino.

Le condizioni igieniche fanno dunque pena, e la vergogna di essere sorpresi da qualche soldato a urinare ci insegue.

In tutto questo, il pensiero di mio padre rinchiuso ad Auschwitz mi provoca ogni volta un nodo alla gola.

Dopo mesi, se non anni impiegati a cercarlo per la città di Berlino, la consapevolezza che sia stato violentemente ucciso continua ad occupare i miei pensieri.

Almeda, padre di famiglia, marito e lavoratore instancabile, muore così nel campo, senza una degna sepoltura, senza un ultimo abbraccio con i propri cari, senza lacrime e senza preghiere.

Non posso neanche pensarci.

Tento di distrarmi in qualche altro modo, ma il freddo mi costringe a mettermi sotto le coperte: qui, se ci si sofferma a pensare alla morte dei propri cari, alla barbarie del popolo ariano, all'inconsapevolezza degli Alleati, al tifo e a tutte le malattie che si possono contrarre si rischia di morire anche senza essere stati portati in un forno crematorio.

Cerco quindi di chiudere gli occhi, avendo del sonno arretrato, ma vengo bruscamente svegliato dal mio stato di dormiveglia dalla porta che viene sbattuta.

«Su, uscite» strilla una SS.

Non l'ho mai visto prima d'ora, so solo che nella baracca il vociare confuso mi fa uscire di testa.

Non ho neanche il coraggio di chiedere a Fred cosa stia succedendo: avrò lo stomaco adatto a sopportare un'altra sorpresa.

Usciamo dalla baracca, e il freddo ci fa tremare dalla testa ai piedi.

Veniamo costretti a seguire un uomo tarchiato, che ci mostra il cancello del campo inspiegabilmente aperto.

Credendo di essere liberi, alcuni dei miei compagni iniziano a correre, allontanandosi dal gruppo.

«Capisci Uri? Siamo liberi! Possiamo tornare nelle nostre case, tornare ai nostri lavori, tornare esseri umani!» strilla Friedrich in pieno stato d'estasi, ma io mi mostro meno sicuro: se c'è una cosa che ho appreso in tutti questi anni, è che i tedeschi non regalano niente, neanche la libertà.

«C'è qualcosa sotto, Fred. Non so se sia conveniente fidarci. Aspettiamo un altro loro passo» gli spiego.

«Oh, al diamine la previdenza, Uri! Il cancello è aperto! Abbiamo atteso fin troppo questo momento! Siamo piccoli scheletri a cui è concessa una fetta di gioia. Non esitiamo ad addentarla!» insiste lui.

«Ti dico che è meglio attendere. Ascoltami almeno per una volta, dannazione!» inizio a gridare, essendo travolto da un senso di confusione e dubbio.

«Tu continua a marcire in questo campo, se vuoi. Io voglio tornare a casa prima che la pelle si stacchi dalle ossa» mi dice, iniziando a correre.

Lo guardo mentre corre a fatica, ma sopraffatto nel complesso da tanta felicità.

In pochi si uniscono a lui e agli altri impavidi uomini che si sono impazientemente avviati verso il campo: gli altri, dubbiosi come il sottoscritto, rimangono fermi ai loro posti.

Prima che possano uscire dal cancello, accade l'inaspettato.

Un boato scuote il campo di Monowitz, poi un altro, e un altro ancora.

Guardiamo in cielo, aspettandoci un altro bombardamento, ma vediamo solo nuovi fiocchi di neve che scendono.

Poi guardiamo di nuovo davanti a noi, e mentre il soldato inizia a muoversi, noi veniamo invitati a seguirlo.

Più ci avviciniamo al cancello, più le immagini si fanno nitide: decine di uomini sono sdraiati a terra, proni, con del sangue che esce dalle loro tempie. È un colpo ben assestato, senza dubbio.

Quando però intravedo il volto di Fred, il senso di impotenza mi distrugge.

Vedo gli occhi splancati, privi di vita, e il sangue che esce copioso.

Qualche lacrima scende dai miei occhi: vorrei con tutto me stesso abbracciare il suo esile corpo, ma il gruppo prosegue in questa dolorosa marcia, e io non posso fare altro che aggiungermi.

La SS calpesta volontariamente il corpo di uno degli uomini che sono stati brutalmente uccisi.

Io, invece, con il petto scosso dai singhiozzi e gli occhi sempre più umidi, mi sento ora più solo e responsabile che mai.

Avrei dovuto trattenerlo, fermarlo con parole più convincenti, e la consapevolezza che avrei potuto farmi coinvolgere dal suo entusiasmo mi terrorizza.

Così, con le gambe sempre più stanche, canmino senza voltarmi indietro.

La prossima destinazione è Auschwitz, sento dire.

Forse, una volta per tutte, Dio si sbarazzerà anche di me.

In mezzo al sospiro del ventoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora