𝑳𝒆 𝑷𝒓𝒊𝒏𝒕𝒆𝒎𝒑𝒔 𝑵𝒆́𝒄𝒓𝒐𝒑𝒉𝒊𝒍𝒊𝒒𝒖𝒆

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Le Printemps Nécrophilique; Salvador Dalí, 1936

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Le Printemps Nécrophilique; Salvador Dalí, 1936.

Smisi di contare le domande della polizia già dopo la quinta.

Afferma di essere andata in bagno. È così?

Non era nei pressi del quadro elettrico? Ne è certa?

È una coincidenza che lei fosse in bagno mentre la corrente veniva staccata?

Era l'unica a sapere della cena nella galleria del signor Dupont? L'ha riferito a qualcun altro?

Era interessata al dipinto?

Perché mai avrei dovuto rubare la Venere?
Non avrei potuto esporla né mostrarla a qualcuno in privato; quale sarebbe stato il vantaggio di un gesto del genere? Quale sarebbe stato il risultato?
A parte la galera, s'intende.
Non ero preoccupata, non mi ero messa in nessuna posizione di sfavore. Ero davvero in bagno; le telecamere del corridoio mi avevano ripresa mentre entravo e non c'erano video che testimoniassero una mia ipotetica uscita. Non c'erano finestre dalle quali potessi essere scappata e se anche ci fossero state, la distanza da coprire per tornare alla cena da qualsiasi ingresso, come se nulla fosse, sarebbe stata troppa per riuscirci.

E la corrente era stata staccata troppo presto. No, non ero decisamente preoccupata. Solo irritata.

E più avevo davanti quel dannato poliziotto, più il mio nervosismo cresceva. Cercavano un colpevole e volevano trovarlo in fretta, per chiudere il caso. Perché, dopotutto, non era così importante il furto di un dipinto di quella portata. Non per loro.

“Qualcuno l'ha colpita nel corridoio…”

“Sì.” Ma in quel momento fu il mio piede a cominciare a colpire velocemente il pavimento sotto la suola della scarpa, obbedendo spontaneamente al cervello che gli ordinava di farmi fuggire da lì quanto prima fosse possibile, per evitare di alzarmi e commettere un crimine del quale, in quel caso, sarei stata capacissima. “È quello che ho detto.”

Per qualche strano motivo avevo omesso di aver sentito un forte profumo al momento dell’impatto. Da un lato la ritenni una nozione piuttosto inutile, dato che non ero riuscita ancora a riconoscerlo.

E con il rintoccare delle ore il ricordo diventava sempre più sbiadito.

"Può andare. Le faremo sapere." Quelle parole furono per il mio corpo una boccata d'ossigeno. Le mie ossa divennero improvvisamente leggere ed ogni muscolo parve sciogliersi intorno ad esse come cioccolato fuso; mi sembrò quasi di cadere quando mi misi in piedi con una specie di balzo, scattando come una molla. Il sollievo era un’emozione piuttosto rara dentro di me, ma sentivo di provarlo in quel momento.

Il mio unico pensiero era tornare alla galleria e vedere se Gabriel si fosse ripreso dallo shock, anche se ne dubitavo. Avevo avuto pochi minuti per confortarlo prima che la polizia arrivasse a fare domande, e dopo una notte insonne ero stata chiamata subito in centrale per la deposizione.

𝑶𝒎𝒏𝒊𝒂 𝒗𝒊𝒏𝒄𝒊𝒕 𝑨𝒎𝒐𝒓Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora