18 novembre

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L'unica fonte di luce era la livida luna che splendeva sulla secreta via che giungeva a casa, ma non sarei dovuta andare lì.
Era il freddo novembre a cavallo tra due mesi contrastanti, anch'esso paradossalmente opposto; ed io ero in quelle giornate in cui bisognava ben coprirsi per scappare dall'incessante gelo che ricopriva la giornata.
Confrontandomi con molti, notavo quanti amassero passare le giornate in casa, dialogando e mangiando con i propri cari, ma io una famiglia non l'avevo.
Non che mi dispiacesse, ero oramai abituata al non sentire più voci e non vedere più sagome girare in casa, ma ogni tanto per reminiscenza ricordavo quei momenti in cui anche io amavo fare quelle cose mentre adesso mi limito a sdraiarmi sul letto e leggere qualcosa con il camino che mi riscalda.
Ma oggi non volevo, erano anni che mi ripetevo di passare questo inverno diversamente, e ogni anno posticipavo questa teoria all'anno seguente, quindi decisi di fare una passeggiata.
Non nego che speravo di incontrare qualcuno per fare quattro chiacchiere ma non vidi nessuno.
Mi sembra anche evidente non ci fosse nessuno alle 8.45 di sera del 18 novembre; ma forse era meglio così. Anche perché, cosa gli avrei detto? Non sapevo più intrattenere un discorso, avevo perduto l'arte della parola e a stento riuscivo a salutare la commessa quando entravo nel solito supermercato o a rispondere alle solite chiamate telefoniche con un flebile "ciao".
Quindi si, era meglio così.
Immersa nei miei pensieri, continuavo a camminare senza sapere dove andare. Il mio alter ego mi ripeteva incessantemente di tornare a casa, ma io una casa non l'avevo; certo, avevo un edificio in cui vivere anche se non mi sentivo a casa. Non era il mio posto felice, non mi sentivo tranquilla poiché essere lì significava fare i conti con il proprio io, ed io non avevo voglia di dialogare con me stessa. Mi limito sempre ad accumulare e rimandare i miei problemi sperando un giorno di svegliarmi senza o di non svegliarmi più.
Dopo tante ore rinchiusa lì, riuscivo però a stabilire un equilibrio, uno stato di quiete, tra la mia irrequietezza e l'inquietudine della casa: era l'unica maniera che portava ad una pacata convivenza, anche se momentanea. I pensieri continuavano a mangiarmi viva giorno per giorno, e mi chiedevo, quando finirà tutto questo? Forse ero io l'artefice di tutto questo? Ma cercavo di non pensarci, continuando a colpevolizzare il mondo attorno a me, e comportandomi da ignava.
Ma forse avrei dovuto affrontare la situazione? O forse avrei dovuto solo aspettare di giungere il massimo stato di quiete, scontando le mie pene in un altro mondo o iniziando a vivere in un'altra vita?
Erano anni che continuavo a ripetermi queste stesse domande senza giungere mai ad una risposta.
Il mio sogno da bambina è sempre stato di vivere come facevano "i grandi", in piena autonomia, con responsabilità e maturazione, ma significava anche essere soli? Io auspicavo alla solitudine, ma non quella che giunge alla tristezza e alla monotonia.. io puntavo ad amarmi, a stare bene con me stessa e anche da sola ed è quel tipo di solitudine che tutti sognano dove non hai bisogno di nessuno, prosegui la tua viva in sintonia con te stessa e con gioia ma sola senza affetti, ed invece mi ritrovo senza i calorosi abbracci e le dolci parole della mia famiglia che continuano a risuonare nella mia testa senza fine:"tesoro come stai?" "Hai fame?" "Gradisci qualcosa?" "Mi manchi tanto".
Non li ho eliminati io, sono sicura di non essere stata io anche se continuo ad incolparmi di non aver fatto abbastanza, di non essere stata abbastanza, del tempo perduto a sognare la vita che vivo senza vivermi la vita che realmente sognavo ed avevo prima di quel tragico incidente.

without youWhere stories live. Discover now