Il Nastro Bianco

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Ciro parlava. Per colpa della sua parafasia balbettava, ripeteva parole e con disinvoltura stravolgeva il costrutto della frase, ma di fatto parlava. Eppure, eccetto sua madre, nessuno lo riteneva degno di ascolto.

Pur avendo cinquant'anni suonati, i vicini non lo consideravano un uomo. Forse perché i suoi sproloqui erano accompagnati da troppi gesti: all'improvviso le braccia spiccavano il volo, le gambe si muovevano senza che lo volesse e le dita tozze indicavano sentieri invisibili al resto della gente. Ma solo perché ogni volta seguivano il Nastro.

Ciro una direzione ce l'aveva. Quando serviva, gliela mostrava il suo Nastro Bianco: lo vedeva svolgersi, sinuoso, nei momenti più impensati. E lo seguiva sempre.

Nelle palazzine si spacciava senza ritegno. E Ciro osservava. I vicini se n'erano accorti da un pezzo, tuttavia sapevano che in pochi riuscivano a capire ciò che diceva. Se lo sorprendevano affacciato al balcone, non era un problema; lo consideravano innocuo. E lo chiamavano Cicciotto, forse per la stazza e le gambe corte, oppure talvolta 'o Cacaglio Scemo, per sminuirlo, per tenerlo "sotto lo schiaffo" come si dice dalle nostre parti. Ma lui si chiamava Ciro e non era scemo.

Quanto gli piaceva la cioccolata. Sua madre, buon'anima, prima che se ne andasse gliela comprava due volte a settimana. Adesso era con i suoi risparmi che Ciro comprava tanta cioccolata. Aveva la casa piena di barattoli, e quelli vuoti non li buttava. Viveva di cioccolata, lo aiutava a pensare: ogni volta che l'assaporava si domandava se la sua esistenza servisse a qualcosa.

All'improvviso qualcuno bussò alla porta, due, tre volte.

Ciro era affacciato al balconcino e sei scarabei azzurri, così chiamava le volanti, si erano accalcati nei pressi del portone come davanti a una palla di sterco. Quando i polizotti entravano nel palazzo, di solito, ne uscivano portandosi qualcuno sottobraccio; Ciro pensava che fossero delle persone gentili.

Di nuovo qualcuno bussò alla porta, stavolta in modo più energico.

Ciro trotterellò verso l'uscio; lo aprì.

«Polizia!» fece un agente alto quasi due metri.

Ciro adorava la loro divisa, il modo deciso col quale ogni volta entravano nel palazzo e simultaneamente le porte sbattevano. E le serrature scattavano. E le mura tremavano. Ogni volta il loro ingresso era seguito dagli stessi suoni metallici, e prepotenti. Ciro pensava che fosse una specie di benvenuto che il palazzo tributava agli agenti.

A occhi sgranati fissò il poliziotto, sorrise. Balbettò qualcosa.

Gli agenti si guardarono l'un l'altro con lo stesso imbarazzo che sfoggiavano tutti quando Ciro cominciava a parlare.

Lui provò a spiegarsi. Borbottò qualcos'altro.

Il poliziotto fissò i tre colleghi e bisbigliò: «Non è lui».

Fu allora che Ciro vide materializzarsi, alle spalle degli agenti, il Nastro bianco. Si librava a mezz'aria, ondeggiando, era proprio al centro del pianerottolo. Poi si spinse in avanti: sfiorò le porte del piano e si avvolse intorno al pomello dell'appartamento accanto all'ascensore. Quello era un brutto posto: gli inquilini spesso alzavano la voce e le loro donne urlavano terrorizzate.

Ciro non ci pensò due volte, si fece largo fra i poliziotti, raggiunse l'appartamento segnato dal Nastro bianco e bussò.

Gli agenti, incuriositi, lo seguirono con lo sguardo.

Un tipo in canottiera e bermuda spalancò la porta. Dietro di lui s'intravedeva un tavolo basso sul quale spiccavano torri di banconote, fagotti incerottati col nastro da pacchi e pistole.

Una delle pistole si alzò e fissò Ciro col suo occhio nero.

Un botto scosse l'aria.

Le orecchie di Ciro presero a fischiare e un dolore al petto gli tolse le forze e il respiro.

All'improvviso Ciro non sentì più niente. Lo pervase un senso di beatitudine. Non aveva più voglia di cioccolata; strano.

Il tocco delicato, e amorevole, di sua madre gli sfiorò la guancia.

Ciro aprì gli occhi. Era lei, e nella mano stringeva il Nastro bianco.

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