Una gabbia di pensieri

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Volava, sfiorando con grazia le velature chiare dell'acqua increspata. La sua figura bianca spiccava lampante sull'infinito ordito azzurro. Era sospinto dalla brezza come da una corrente che non opponeva resistenza al suo avanzare. Procedeva veloce con i piccoli occhi vitrei semichiusi; impudente non pensava a concentrarsi su ciò che aveva davanti, eppure era estremamente vigile. Se qualcuno si fosse posto come ostacolo nel suo percorso, lui lo avrebbe evitato con uno scatto repentino senza smettere di incedere con quell'ammaliante veemenza. Sembrava tremendamente leggero, spigliato nella sua apparente sconsideratezza ed era facile attribuire queste impressioni al mare. Sì, era merito del mare; se il gabbiano non avesse avuto quel mare su cui si stagliavano dense striature smeraldo, probabilmente la sua avvenente sicurezza sarebbe svanita nel nulla, sostituita da chissà quale altra qualità. Era la cosa più naturale da pensare, o almeno era quello che pensava colei la quale lo stava osservando. Era seduta sul brecciolino del molo, i riflessi del sole sulle onde la accecavano, ma non osava chiudere le palpebre; si sforzava a tenere gli occhi arricciati. Guardava le ali spiegate dell'uccello, sembrava esserne quasi invidiosa. La ragazza aveva la fronte corrugata, era immersa nel turbinio dei suoi pensieri; ma non era lei a dargli corda con un qualsiasi filo logico, loro la inghiottivano con la solita inarrestabile turbolenza. Scorrevano nella sua testa come un succedersi di immagini e lei era incapace di bloccarli, gestirli; subiva impotente il loro corso infinito. Per quanto fosse ormai abituata alla loro incessante presenza, sentiva di odiarli, avrebbe preferito sparissero così lei non si sarebbe più persa tra loro. Precipitava ininterrottamente nelle grinfie delle sue riflessioni, scivolando sempre nello stesso pozzo profondo e giurava che avrebbe trovato un modo per rimanere con i piedi per terra, ma ogni tentativo era inutile. Continuava a ripetersi che doveva farcela perché i sensi di colpa le pungevano il cuore come spine. E se quel gabbiano fosse stato rinchiuso dietro le sbarre, in una voliera tinteggiata di bianco? Avrebbe scrostato la vernice con il becco allungato, si sarebbe dimenato senza posa cercando di scappar via. Ogni sforzo sarebbe stato vano; non poteva alzarsi in volo chiuso lì dentro, avrebbe agitato le ali, ma non sarebbe riuscito ad aprirle. Si sarebbe abbandonato alla disperazione, sottomesso dal gravoso giogo della remissività: era impotente. E proprio allora avrebbe rimpianto con amara malinconia le lunghe giornate passate a vagare in solitudine sul pelo dell'acqua salata. Chissà se, con un moto di spontaneità, avrebbe socchiuso gli occhi biechi per guardare ancora una volta il mare sul quale riusciva a destreggiarsi da sommo maestro. La figura che lei stava osservando in quel momento, si poggiò su uno sperone roccioso e cominciò a scrutarla lanciandole occhiate torve. Era evidente che il gabbiano fosse turbato dalla sua presenza, la ragazzina si stizzì e sollevandosi fulmineamente in piedi gli voltò le spalle. Improvvisamente si sentì spossata, stanca, nonostante fosse stata seduta per un pezzo a non far nulla. Salì sulle travi scheggiate del pontile e non appena mise piede sul legno, si levò uno scricchiolio che frantumò l'infinita quiete del luogo. Lei sentì un pesante battito d'ali, così alzò il naso in direzione dello scoglio scuro, ma la maestosa sagoma del gabbiano non c'era più. La ragazzina si mise le mani in tasca, presa da un brivido di freddo. In quei giorni l'aria stava acquistando in maniera brusca i segni della mitezza; nonostante lei amasse la stagione che stava mettendo radici, si ostinava a rimanere ancorata al gelo invernale senza accettare il trascorrere del tempo eccessivamente rapido. Tirò fuori dalla borsa di cuoio, che aveva poggiato ai suoi piedi, una marea di pagine strappate e piegate, le sue dita tremarono quando toccò la carta stropicciata. Le scivolò una lacrima sulla guancia pallida, ma con irruenza si strofinò la pelle chiara e la cacciò via dal volto. Strinse il fastello di fogli nel palmo sudato e affondò le unghie nell'inchiostro sbiadito che si intravedeva tra le righe; con un gesto furente, gettò i fogli giù dal ponticello. Si poggiarono su una superficie incerta impregnandosi d' acqua, così la carta annegò, inghiottita dal mare. La ragazzina chiuse le palpebre con rassegnazione, non ce la faceva più. Aveva un peso immane nel petto, un nodo che non riusciva a sciogliere ed era stanca di sentire la sua presenza insopportabile, non se lo perdonava affatto di portare quel fardello; stava male, era stanca, voleva sorridere con leggerezza. Cosa avrebbe detto Jo se avesse saputo che ciò che scriveva per lei era andato distrutto, che lei lo aveva distrutto? Balle, Jo non esisteva, non avrebbe detto un bel niente. Però lei le parlava, o meglio le scriveva raccontandole ogni cosa giorno per giorno, ogni segreto o pensiero, ogni sogno, ogni obiettivo. Jo la conosceva meglio di quanto lei non conoscesse realmente se stessa. Nella mente della ragazzina balenò per un momento la nota grafia spigolosa che con vigore scriveva: "Cara Jo..." e riversava tutto su quei dannati fogli, su un nome astratto. La carta è più paziente degli uomini, lo aveva sempre pensato, ma era finita: Jo doveva lasciarla in pace. Quelle con cui aveva perso tempo erano parole dimenticate nel vuoto, che giacevano nell'oblio; non servivano a nulla. Era con quelle parole che aveva provato a liberarsi, aveva conservato a lungo la speranza. Lei era intrappolata in quelle pagine gremite, schiacciata dalla punta a sfera della sua penna, rinchiusa nei caratteri neri. Aveva demolito tutto, aveva annegato se stessa e chissà se avrebbe finalmente avuto pace. Era la cosa giusta, forse la prima dopo una sfilza infinita di errori. Poteva respirare, i suoi pensieri sarebbero spariti con quelle migliaia di vecchie righe. E chi se ne importava di Jo, c'era un'infinità di persone in carne e ossa nel mondo da cui era sempre fuggita senza farlo apposta. Poi si ricordò degli altri, si ricordò degli sguardi crudeli, le parole vuote, l'affetto falso, i sorrisi montati. Era normale che funzionasse così e lei lo odiava. Questo era il motivo per cui evadeva, si estraniava da tutto ripiegandosi inconsapevolmente su se stessa. La colpa era sua che aveva sempre in testa i disgraziati pensieri. Aveva veramente vinto la battaglia? Si era svuotata dei suoi tormenti? Chi voleva prendere in giro? Non poteva scontrarsi con se stessa, si stava realmente distruggendo, annegando. Cosa le era saltato in mente?

La ragazzina si tuffò in acqua dimenticandosi di aprire gli occhi che erano rimasti chiusi. Ancora una volta si sentì gelare fino al midollo, i panni le si gonfiarono addosso. Ascoltò il silenzio, uno zampillo di bolle sott'acqua le solleticò la punta del naso con fare giocoso. Sbarrò gli occhi, il colore deciso del mare si sfocò in un vortice di sfumature chiare. Lei non aveva l'abitudine di tenere gli occhi aperti sott'acqua, dopo poco iniziavano a bruciare; ma quella volta non li richiuse. Conosceva un ragazzo che vedeva benissimo quando si immergeva, rimaneva in balia delle onde per moltissimo tempo senza badare alle orecchie che gli fischiavano per la pressione quando si spingeva in profondità. Doveva essere meraviglioso sentirsi parte del mare al punto da sfidarlo con incoscienza. La parola "sfida" aveva in sé un brivido di eccitazione, lei non aveva mai assaporato il fascino di una sfida. Del resto aveva appena sfidato se stessa e non era esattamente piacevole, doveva aver sbagliato qualcosa. Forse perché era troppo concentrata, doveva smetterla; era per colpa della sua concentrazione che continuava a esasperare ogni cosa. Il punto era sempre lo stesso. Con uno slancio la ragazzina si riscosse dall'immobilità in cui l'aveva adescata l'apnea. Aveva fretta, le pagine strappate erano ancora lì ad annaspare. Forse avrebbe dovuto lasciarle dov'erano e avrebbe risolto i suoi problemi per sempre; ma non ne ebbe il coraggio. Perse la sfida che si era lanciata. Quest'affermazione la devastava, così preferì farsi dilaniare dall'interrogativo: aveva perso la sfida? I suoi maledetti dubbi l'avrebbero fatta cadere; ne era certa. O magari l'avrebbero aiutata, aiutata ad essere se stessa. Però, a che cosa sarebbe servito? Non importa a nessuno come sei veramente. Nonostante i saggi lo neghino con la più totale fermezza, questa è la verità; lei lo sapeva. Che diavolo aveva risolto? Per quale inspiegabile motivo si preoccupava di riportare all'asciutto le pagine sgualcite che aveva strappato con la violenza delle lacrime? Sì, le aveva strappate; lei odiava il rumore degli strappi, suonava come quello delle unghie che graffiano l'intonaco del muro. Eppure aveva compiuto quel gesto con voga, senza esitare. Se qualcuno l'avesse guardata in quel momento, avrebbe giurato che la ragazzina stava facendo sparire le prove di un omicidio, un'azione orrenda per cui serbava rimorsi disperati; quindi sembrava un'assassina, era un'assassina. Allora perché si ostinava a salvare quella carta, la stessa che le aveva causato tanto dolore, strazio? Solitamente sapeva rispondere alle domande, anche quelle difficili. Tuttavia quel quesito era banalmente facile e lei non sapeva cosa replicare, ci volevano i nervi saldi per non imbestialirsi in una situazione del genere, infatti, la ragazzina non ce li aveva e desiderò gridare fino a squarciarsi le corde vocali. Cacciò delle urla da pazzi, solo che nessuno le sentì; i tremendi strilli risuonarono solo dentro di lei ed erano assordanti, laceravano le sue tempie. Avrebbe dato di tutto per non sentire lo struggimento che le faceva rodere il fegato; voleva essere più forte, voleva essere onesta con se stessa. Si aggrappò con le dita alle travi sporche del ponticello e risalì aiutandosi con una spinta. Avrebbe perso la testa; aveva provato a usare la ragione per sbarazzarsi delle sue preoccupazioni ma non c'era verso. Non si può spegnere la mente quando si è stremati, quando non se ne può più e a usarla fa solo raccapriccio? Era un'egoista perché in verità ci teneva da morire a ciò che scriveva, a Jo e a essere se stessa. Si sedette sulla punta delle travi di legno bagnate con le gambe penzoloni nell'acqua, iniziò a giocare con le punte dei capelli, aggrovigliandosi le ciocche fradice tra le dita. Aguzzò la vista in cerca del gabbiano, magari si era riavvicinato e per deriderla. Lo vide, era poggiato sul suo vecchio scoglio, aveva lo sguardo serio; non sembrava la stesse sbeffeggiando. Le sue labbra si schiusero in un sorriso, un sorriso leggero di quelli spontanei che prendono alla sprovvista. L'uccello si sollevò in volo sulle zampe palmate, questa volta, però non era infastidito. Si diresse verso l'orizzonte tagliando il cielo con il suo andamento spavaldo. Lei tirò un sospiro e si fece punzecchiare la gola dall'esuberanza dell'aria primaverile. Avrebbe volato alto come il gabbiano, ripudiando l'idea di poter essere rinchiusa in una gabbia tetra ed evitando qualsiasi ostacolo si fosse posto sulla rotta che era impressa nel suo animo.

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