Please, be alive.

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07.01.2017, ore 03.42 AM.

La testa riccia del detective si voltò leggermente in direzione della sveglia ferma lì sul comodino e che gli ricordava, incessante, che ora fosse. Che gli ricordava, spietatamente, che anche quella notte si era svegliato di soprassalto in preda ad una paura che non sapeva riconoscere o giustificare.

Ed anche quella notte, dopo circa quindici minuti dal momento in cui aveva aperto gli occhi, aveva sollevato le coperte che gli coprivano il corpo e a piedi nudi aveva raggiunto il piano di sopra dove il suo partner d'avventura riposava. O sarebbe meglio dire che ogni notte raggiungeva il piano di sopra e sperava vivamente che lui fosse lì, e che stesse bene.

La sua mano si poggiò contro la maniglia fredda, e per l'ennesima volta esitò. Qualcosa, però, portò una novità in quella strana e morbosa routine.

Prima che potesse far pressione contro la maniglia ed aprirla, percepì una voce chiamarlo al suo interno.
Dal tono sembrava volesse ammonirlo per quel gesto.

Il detective si maledì mentalmente per non aver prestato cura ai propri movimenti, per aver fatto forse troppo rumore nel salire. O forse aveva poggiato il piede sullo scalino che cigolava, dimenticandosi di saltarlo? Non ne era sicuro, ma ancora una volta, la voce all'interno della camera lo chiamò, esortandolo ad entrare.

Allora abbassò la maniglia, aprì la porta e dopo qualche istante entrò nella stanza. Rimase però sull'uscio della porta e non aveva neppure il coraggio di guardare in direzione dell'amico che si stava avvicinando ad accendere la lampada sul suo comodino.
Il detective era in imbarazzo per essere stato scoperto, certo, ma sentiva comunque un senso di conforto: anche quella notte John Watson era lì, disteso tra le morbide e calde coperte, i capelli appena in disordine; e respirava, stava bene.

« Che cosa succede, Sherlock? » Era premuroso, forse preoccupato, lo si capiva dal suo tono di voce usato già altre volte per consolare la signora Hudson, o alle volte Molly. «Vieni qui ogni notte, mi guardi, e poi vai via. Sapevo fossi strano, ma inizi a spaventarmi. »

Il medico gli fece cenno di avvicinarsi al letto e sedersi al suo fianco. Esitò, per qualche istante, ma trascinò i piedi fino a raggiungerlo, e si sistemò al fianco del medico. La schiena dritta, poggiata contro la testiera del letto, i piedi incrociati, le mani sul grembo.

Ma non rispose. Si era perso tra i suoi pensieri.
Per quanto fosse intelligente, il detective non riusciva a capire il proprio atteggiamento e quella sua strana ossessione, non riusciva a trovarvi una spiegazione.
Cercò per qualche istante di concentrarsi sul proprio corpo, per percepirne ogni cambiamento nella speranza di trovare una soluzione a quel caso, il suo caso personale: aumento della pressione, tensione dei muscoli, aumento del battito cardiaco e della frequenza respiratoria, aumento dell'attività sensoriale. Cercò di far lavorare il cervello, mentre il mento era poggiato ai propri pugni chiusi, la testa appena abbassata, e gli occhi socchiusi a due fessure. Ma poi si aprirono, totalmente, in un lampo di genio.

Paura. Sherlock Holmes aveva paura.

In quel momento non era neppure difficile capire da cosa derivasse quella paura. La causa scatenante era seduta al suo fianco e lo stava osservando da qualche minuto senza dire nulla, lasciandogli semplicemente tutto il tempo di cui avesse bisogno: John Watson. Sherlock Holmes aveva paura per John Watson, per la sua incolumità.

Negli anni passati insieme a quell'uomo Sherlock aveva visto le loro vite messe a repentaglio più e più volte, durante quegli episodi era spaventato ed aveva sempre cercato di mettere in salvo il medico, prima di poter pensare a sé. Ma mai in quegli anni Sherlock aveva passato decine di notti sveglio, nel suo letto, a tremare e a star male per la paura che qualcuno potesse uccidere John Watson tra le pareti di casa loro. Mai in quegli anni aveva avuto paura per rumori di finestre, porte, stoviglie.

Please, be alive. - Johnlock.Where stories live. Discover now