Where have you been? Start/End

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Questa è una oneshot scritta di getto. C'è qualcosa di Murakami e Han Kang, qua dentro. Fatemi sapere cosa ne pensate.

Phone Sex
by The Cutouts
(Da ascoltare decisamente in loop)

Ho un nome, ma me lo sto dimenticando. Ho un volto, ma non lo riconosco più nei ritagli delle vecchie fotografie di famiglia. Non pensavo di poter essere ciò che sono. Non pensavo di poter diventare ciò che sono. Chi sono, cosa sono. Dubbi. Apparenti. Ciò di cui in realtà non mi importa. Trascendentale. E illuminante.

Allo specchio, i miei occhi sono castani. Io, nella mia testa, non li vedo. Non li sento. Non li percepisco. Non vedo più. Ho chiuso gli occhi, una sera. Esalato un timido respiro, prima di dormire. «Mi sento stanco» avevo detto, a tavola. Junghyun aveva smesso di mangiare, lasciando il suo boccone di riso sospeso in aria. Mi aveva guardato, come se avessi tirato la bestemmia più peccaminosa. Il mestolo era scivolato dalle mani di mia madre ed era caduto rovinosamente a terra. Un suono secco. Mio padre è stato l'unico a continuare a mangiare. «Scusate» avevo aggiunto, facendo un breve inchino. E avevo fatto per alzarmi, strisciando le gambe della sedia sulle piastrelle del pavimento.

«Non ti muovere» aveva detto severo mio padre. «Come puoi vedere, non abbiamo tutti finito di mangiare». Giusto.

«Chiedo scusa» avevo ripetuto ma senza spostarmi di un millimetro. Pensavano fossi dispiaciuto per la mia mancanza d'educazione. «Ma davvero, sono molto stanco, penso che andrò a dormire». Almeno per un po'.

Non dissi più nulla. Loro non risposero. Junghyun sobbalzò, tremando. Aveva paura. Io mi alzai e mi diressi in camera mia, senza far alcun rumore. Mi tolsi i vestiti e mi cambiai, indossando qualcosa di più comodo. Mi distesi sopra il mio letto. Mi coprii. E dormii. Per un po'.

È passato un mese, da quel giorno. Sto ancora dormendo. Le palpebre sono pesanti. Mia madre di notte piange. Si chiude nel ripostiglio, tra le scope e i prodotti per le pulizie, dove pensa che nessuno andrà a disturbarla, stretta in quel piccolo stanzino, si sfoga. Libera ogni lacrima. Io la sento ma non commento. Lei piange. Così tanto. E così forte. Vorrei alzarmi e abbracciarla. Dirle: «Forse un giorno mi sveglierò, riposa in pace, mamma. Vivi la tua vita e non restare in pena per me». Dopotutto, io sono qui. Sopra il mio letto, sotto le mie coperte.

Junghyun pensa che stia fingendo. Crede che quando loro vanno a dormire, la notte, oppure quando sono tutti via di casa, che sia per lavoro o per frequentare l'università, io mi rianimi. Un mercoledì sera, è rimasto seduto sopra il mio letto, alla fine di questo. Di tanto in tanto, mi carezzava con tocco gentile e leggero le gambe. Poi, con cattiveria, mi puntava la torcia del telefono sul viso, come per dire: «Ecco! Finalmente ti ho beccato, Jungkook-ah!». Ma questo non è mai accaduto.

Mio padre, nel frattempo, col passare dei minuti, si convince sempre di più del fatto che sono un disgraziato. O una disgrazia. Che in famiglia sono sulla bocca di tutti. Non si può pranzare in pace, la domenica, perché qualcuno, senza alcun dubbio, chiederà, ad un certo punto, come io stia. Non se lo perdona. Non mi perdona. «Perché non ho una famiglia normale?» si chiede, di fronte alla televisione, seduto sopra la sua poltrona. Mia madre stira la biancheria dietro di lui. «Mia moglie piange di nascosto. Urla, e ancora crede che nessuno la senta». Mia madre, ascoltandolo, fa bruciare una camicia. «Junghyun, poi, con questa fissa per il teatro non andrà mai da nessuna parte!» grida «Non capisce che per questi studi servono delle scuole particolari... insomma, specializzate. Ancora meno comprende che non abbiamo abbastanza denaro per aiutarlo!». Spegne con rabbia la tivù. Si alza dalla poltrona e va in direzione della porta d'ingresso. Esce ma non va lontano. Si siede sui gradini dell'entrata. Si fuma una sigaretta. «Jungkook poteva essere qualcuno» continua a rimproverarmi «ma lui ha deciso di dormire».

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