Capitolo uno

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L'acqua esce a intermittenza dal rubinetto. Non è arrivata subito dopo aver girato la manopola, prima c'è stato un rumore strano come di rigurgito, e poi un timido getto. E' irritante.

Mi sciacquo il viso, cercando di tenere i capelli indietro, anche se qualche ciocca ribelle si china insieme a me e si bagna. Rimango lì, con le mani sulla faccia, immobile, con l'acqua che continua a scorrere, stavolta un po' più convinta.

Qualcuno bussa alla porta del bagno.

- Un attimo! – dico ad alta voce, scoprendo il viso. Appoggio le mani sul lavandino e faccio un respiro profondo. Il mio riflesso fa lo stesso.

Il pallore che mi porto dietro ormai da mesi non fa che evidenziare centinaia di puntini sul naso e sugli zigomi. Quelli sulle labbra sono un po' meno evidenti, in un contrasto quasi inesistente con il rosa violaceo. Porto le mani ancora umide dietro la nuca, continuando a fissarmi, facendo scrocchiare un po' il collo. Bussano di nuovo. Apro la porta ed esco dal bagno prima che chiunque possa lamentarsi del troppo tempo trascorso.

I bassi risuonano potenti, il grande soggiorno è illuminato da lampadine a basso consumo che fanno apparire ogni cosa più fredda, persino i divanetti di stoffa, persino i bicchieri pieni sul grande tavolo rettangolare sotto la finestra, persino le persone.

Soprattutto.

L'effetto dell'acqua è già svanito e ho di nuovo la vista un po' annebbiata, cerco di farmi largo tra i fiumi di alcool e un paio di ragazzi con la camicia bagnata di rum e schizzi di vomito, i capelli tirati su con il gel che ora sono mosci, fuori posto. I tre divanetti sono tutti occupati.

Un ragazzo e una ragazza pomiciano selvaggiamente, lui con la maglietta a maniche corte zuppa di sudore all'altezza delle ascelle, lei con la fronte imperlata e un tacco altissimo, le loro lingue non si preoccupano di uscire dai limiti delle labbra, si prendono le guance, i nasi, come se per un attimo perdessero il senso dell'orientamento per poi ritrovare la strada verso l'epiglottide dell'altro.

Le mani di lui che rimangono ferme sul seno di lei, la esplora con foga, scende giù su tutta la pancia fino ad arrivare al bordo della gonna a vita alta. Distolgo lo sguardo verso altre due ragazze chine sul piccolo tavolo quadrato davanti a loro, i loro capelli lunghi e neri nascondono ciò a cui si stanno dedicando con così tanta alienazione, e con un'inquietante impermeabilità al casino che c'è tutt'intorno. Con la testa fanno uno scatto verso destra, in una sincronia perfetta e devastante, per poi tirarsi su. Si appoggiano allo schienale, fissando il soffitto. Sul tavolo, tracce residue di una felicità che non si riceve a Natale quando si è bambini, non si riceve sotto forma di pacchi giganti consegnati da un grosso individuo barbuto e gentile.

Le osservo accasciate lì, come un mucchio di stracci accatastati sulla sedia della propria camera perché non si ha voglia di ripiegarli e metterli nell'armadio, gli occhi chiusi, i loro Laura Biagiotti e Yves Saint Laurent mischiati ai profumi degli altri e al sudore rancido.

Mi guardo intorno e vedo Carlo venire verso di me, la sua testa pelata cosparsa di goccioline di sudore che diventano blu a intermittenza. Mi porge il suo bicchiere invitandomi a bere. Faccio cenno di no con la testa.

- Stai invecchiando, Alice. – mi prende in giro.

- Si ma almeno io ho ancora tutti i capelli. – rispondo.

- Simpaticona. – commenta lui, allontanandosi.

Mi appoggio con la schiena all'unica parete libera che trovo e scivolo giù, fino a sedermi per terra. Vorrei tanto che questo fosse un compleanno, una festa dei sedici anni, quelle in cui c'è un sacco di roba da bere che supera le aspettative e alla fine avanza sempre, insieme alle bottiglie di Fanta e ai pacchi di pop corn del discount. Una di quelle feste che l'arrivo della torta è un segnale che sta per finire tutto, poi ci saranno i

regali, i sorrisi falsi e i bigliettini ai quali non si dà molta importanza, una di quelle feste in cui alla fine ti squilla il cellulare ed è tua madre, o tuo padre, che sono arrivati lì fuori, ti aspettano, saluta tutti e ringrazia.

Le persone intorno a me ridono rumorosamente, come se tutto il mondo fosse poi obbligato a chieder loro il motivo di tanta allegria, tirano cocaina dai dorsi delle mani e bevono dalla bottiglia. La musica sembra uguale a mezz'ora prima. C'è la fila per andare in bagno.

"Stai invecchiando, Alice."

Raccolgo le gambe e poggio la testa al muro, chiudendo gli occhi. Vorrei solo andare a casa, buttarmi sul letto senza neanche togliermi i vestiti e dormire.

Rimandare per un attimo tutto il resto.

Con l'amarissima consapevolezza che "tutto il resto" non è nient'altro che la mia vita.

Cosa ci faccio qui?

Mi sento leggerissima, come se potessi da un momento all'altro staccarmi da terra e salire in alto, bucando il soffitto. Continuo senza motivo a tirare fuori il cellulare con l'8% di batteria, osservare il display e rimetterlo in tasca. Come se aspettassi un messaggio importante, di quelli che ti salvano la vita, di quelli che poi ti affacci alla finestra e c'è qualcuno che è arrivato a fari spenti per portarti via.

Come ci sono finita qui? Mamma, mi vieni a prendere?

Ci vediamo tra pocoWhere stories live. Discover now