Attacco a Shiganshina

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  Un leggero venticello mi solleticò il viso, lasciandomi sulla pelle una sensazione benefica. Mi stupii; era davvero raro che una brezza così leggera riuscisse a valicare le mura, arrivando in città. Mi guardai intorno, beandomi della sensazione che i raggi del sole mi lasciavano addosso. L'aria era impregnata dell'odore di primavera; gli alberi erano fioriti, anche se, qui a Shiganshina, non ve ne erano molti.
Avevo sempre amato questa città. Nonostante avessi viaggiato pochissimo, non riuscivo ad immaginare nessun posto oltre a questo da definire ''casa''. Amavo il clima della città, il gallo della Signora Mahone che cantava tutte le mattine; amavo lo schiamazzo dei bambini che correvo tra le vie delle città, e i rintocchi del campanile. Amavo guardare la città svegliarsi la mattina, e le luci spegnersi quasi in simultanea ogni notte. Amavo tutto di essa. O almeno, quasi tutto; ero sempre stata molto grata per la cordialità che la gente, fin da quando ero piccola, aveva mostrato nei riguardi miei e di mio fratello Eric.
Gliene ero grata, davvero; ma non avevo mai potuto sopportare il trattamento ''speciale'' che essi avevano sempre avuto nei nostri confronti, che, volenti o nolenti, ci avevano sempre isolato dal resto di loro.
Quando passavamo in città, tutti ci mostravano rispetto, indicandoci e parlottando fra loro. -Quelli sono i figli di Isaya e Joseph Thomas.- spiegavano le mamme ai loro bambini, ponendoci in un aura di misticità che non mai riuscita a sopportare.
Nonostante i miei genitori fossero considerati due dei soldati dell'esercito, non volevo essere trattata per questo in modo diverso da tutti gli altri.
Ma ci avevo fatto l'abitudine. Era inutile polemizzare ed arrabbiarsi, poichè le cose non sarebbero cambiate.
Stesi le ultime lenzuola, stirandole per bene, così come mi aveva insegnato la mamma, in modo da non far comparire nemmeno una piega.
Lanciai un'ultima occhiata al sole mattutino, tornando in casa per concludere le mie mansioni. La mamma era sempre stata molto rigida su questo; la prima cosa che una donna doveva imparare, secondo lei, era fare le pulizie. Fin da piccola ero stata costretta ad imparare come lavare, asciugare e pulire al meglio. Ogni angolo della casa doveva essere sempre lucido e immacolato.
Papà non ci faceva nemmeno più caso. Rimaneva seduto dietro la sua scrivania, immerso in una miriade di scartoffie che sembravano non finire mai.
Avevo sempre avuto un enorme rispetto e devozione lui.
Era il mio eroe, l'esempio che avrei voluto seguire; il tipo di persona che sarei voluta diventare. Adoravo mia madre; era una donna forte e coraggiosa, determinata e testarda ed allo stesso tempo dolce e gentile, sempre pronta ad aiutare chiunque ne avesse bisogno. Sapevo che molto spesso si era recata nei bassifondi della capitale, distribuendo cibo, bevande e medicinali a coloro che non potevano permetterseli. La stimavo con tutto il mio cuore per questo.
Ma l'orgoglio e l'ammirazione che provavo nei confronti di mio padre era qualcosa di indescrivibile. Ammiravo la sua forza, il suo coraggio e anche l'aria di imperturbabilità che possedeva. Ero convinta che nulla avrebbe potuto annientarlo. Lui era per me invincibile ed insuperabile. Mai nessuno avrebbe potuto eguagliarlo. Per questo motivo avevo sempre cercato di non recargli alcun dispiacere. Facevo sempre tutto ciò che mi diceva, senza mai lamentarmi. Non volevo altro che essere considerata degna di essere sua figlia; volevo che mi guardasse con occhi ricolmi d'orgoglio, così come facevo io nei suoi confronti.
Ma non ci ero ancora riuscita.
I suoi occhi erano troppo freddi, troppo distanti per essere raggiunti. Ci voleva bene. Ce lo dimostravano i suoi abbracci ricolmi di amore prima di ogni spedizione; ce lo dimostravano i suoi baci sulla nuca, e i suoi ''Ritornerò presto''.
Avrebbe dato la sua vita per proteggerci e tenerci sempre al sicuro.
Sapevo che era così.
Sapevo quanto essi ci amassero, e quanto avrebbero sacrificato per noi. Eravamo una famiglia, e lo saremmo stati per sempre.
Ma quando gli occhi dei miei genitori si incontravano, sembravano entrare in un mondo tutto loro. Un mondo a me sconosciuto, in cui non mi era permesso entrare. Un mondo che loro vivevano in tutte le loro spedizioni, e che, almeno per adesso, non avevo nessun desiderio di conoscere. Vedevo i loro sguardi contrarsi in una morsa di dolore, d'angoscia, di impotenza. Non riuscivo a sopportare tutto quello, perciò facevo finta di non vedere, di non sentire i pianti sommessi di mia madre, attutiti dal petto di mio padre, provenienti dalla loro camera. Non volevo guardare le occhiaie marcate sui loro occhi al ritorno dalle spedizioni, o i loro sguardi persi nel vuoto. Li ignoravo, facevo semplicemente finta di non vedere nulla. In realtà, ero io a non voler capire. Non potevo permettere che il mondo in cui avevo sempre vissuto crollasse sotto i miei occhi, schiacciato dal peso di una realtà a me sconosciuta, ma che ero certa mi avrebbe distrutta per sempre.
Una realtà da cui ero sempre scappata, rifugiandomi nella convinzione che nulla avrebbe potuto distruggere la serenità della mia vita.
Quei fantomatici mostri definiti ''titani'' erano per me solo una leggenda. Avevo sentito dire che, da più di cento anni, essi non erano ancora apparsi, essendo l'umanità protetta dalle tre cinte murarie chiamate ''Wall Maria, Wall Rose e Wall Shina.''
Esse ci avevano protetti, permettendoci di vivere una realtà serena, lontana da tutti quei racconti di orrore e morte che credevo fossero solo finzioni.
Nulla avrebbe potuto distruggerle.
Ma se da una parte ero riconoscente ad esse per averci sempre protetto dal mondo esterno, dall'altro ero terribilmente adirata con loro, poichè non mi permettevano di vedere cosa ci fosse dall'altra parte. Era vero. Poteva sembrare contraddittorio. Perchè la paura e la curiosità non potevano esistere, insieme. Una escludeva l'altra.
Ma dentro di me questi due sentimenti coesistevano, senza che nemmeno io potessi dare una spiegazione. Avevo una terribile paura, ma al tempo stesso volevo conoscere, sapere cosa ci fosse oltre al Wall Maria. Avevo chiesto a mia madre di raccontarmi cosa ci fosse al di la delle mura, ma non avevo mai ottenuto risposta. Era bastato un suo sonoro schiaffo per farmi desistere dal porre la domanda un'ulteriore volta.
Avevo nove anni quando successe.
Ricordo ancora il suono della sua mano sulla mia guancia, dei suoi occhi ricolmi di un terrore che non riuscivo a comprendere.
-Non porre mai più questa domanda.- mi aveva risposto, i suoi occhi che mi guardavano assenti, lontani anni luce da me.
Da allora avevo sempre evitato il discorso.
Non avevo mi più chiesto nulla sull'argomento. Ma la mia curiosità meritava di essere saziata, così cercai le risposte nei libri.
Da allora venni a conoscenza di tutto ciò che ora sapevo sul mondo esterno; lessi di distese infinite d'acqua, di pianure verdeggianti e di montagne ancora più alte delle stesse mura. Avevo letto di come alcune di esse buttassero fuori un liquido pericolosissimo per l'essere umano, definito ''lava''.
Ero innamorata e allo stesso tempo terrorizzata dal mondo esterno. Venni a conoscenza della storia sulle origini dell'umanità e di come essa fosse stata messa in ginocchio dall'arrivo di mostri dalle fattezze umane, ma dall'animo demoniaco.
Esseri che avevano popolato i miei peggiori incubi, tenendomi sveglia per molte notti.
Inoltre, da quando ero venuta a conoscenza di essi, mi erano successe cose strane. I miei genitori erano rimasti sconvolti quando, una notte di febbraio, sentendo urlare nel cuore della notte, si erano trovati davanti ad una visione a dir poco sovrannaturale.
Il mio corpo era incandescente, di un rosso innaturale. Mio padre provò a toccarmi, rimanendo ustionato. La temperatura del mio corpo superò i quaranta tre gradi, ma stranamente non riscontrai nessun danno finisco. Nonostante questo, non fu ciò che più li preoccupò; perchè quando apri gli occhi, che sentivo quasi poter esplodere da un momento all'altro, essi si erano rivelati rossi come il sangue.
Mia madre aveva urlato terrificata, mentre il viso di mio padre sbiancò, assumendo un espressione a dir poco sbalordita.
Il dolore che provai era indescrivibile, come se stessi per morire da un momento all'altro.
Provammo di tutto, me non riuscimmo a trovare una cura a queste ''crisi''. Feci l'abitudine anche ad esse. Nei primi tempi furono numerose e potenti, tanto da farmi restare a letto per molti giorni, incapace anche solo di buttare giù un boccone di pane. Con il passare degli anni, però, esse si fecero sempre più rare e di sempre più debole intensità. Riuscii perfino a sedarle, facendo tornare il corpo normale e gli occhi del mio colore naturale.
Due anni fa esse erano definitivamente sparite, lasciandomi finalmente vivere come una persona normale.
Ma non appena la mia ''malattia'' era scomparsa, Eric aveva iniziato a soffrire di piccoli attacchi di cuore; avevamo scoperto che era affetto da una malattia molto pericolosa, le cui cure erano davvero costose. Fummo costretti a vendere la casa che avevamo, prendendone una più piccola e modesta. I miei genitori iniziarono a lavorare il doppio di prima, svolgendo sempre più mansioni nella capitale. Questi viaggi li portavano via da noi per molto tempo, ma ci assicuravano le cure migliori.
Da allora mi ero presa cura di Eric in tutto e per tutto, colmando, anche se di poco, quella mancanza che i nostri genitori avevano lasciato.
Erano rari i momenti che trascorrevamo tutti insieme; così rari da sembrare quasi dei sogni, per quanto erano belli.
Dopo la partenza dei miei genitori, quando ne sentivo la mancanza, mi crogiolavo in essi, ritrovando anche per poco una sensazione di pace.
Chiusi la porta alle mie spalle, dirigendomi poi in cucina.
-Eric!- richiamai mio fratello, sentendo come risposta un sospiro di rassegnazione.
-Devo venire a tagliare le patate, non è così?- mi chiese sconsolato, non appena fece capolino dalla porta della cucina.
Sorrisi sadica, indicando gli alimenti da pulire sul tavolo e facendogli segno di avvicinarsi.
Uno sbuffo spezzò il silenzio della stanza, subito seguito dal rumore delle patate che venivano pelate.
-Domani tornano mamma e papà..- dissi sovra pensiero, la mente lontana, pensando a tutto ciò che avrei dovuto sistemare prima del loro ritorno.
Non ottenni nessuna risposta, e con un sospiro rassegnato appoggiai sul tavolo la verdura che stavo lavando.
-Eric..- lo richiamai, preparandomi a sostenere un discorso ormai affrontato milioni di volte.
-Lo so già, Cara. ''Non devi sentirti in colpa'', '' Non è colpa tua'' e bla bla bla..- disse lui, ripetendo un copione che ormai sapevamo a memoria.
-Esatto. Proprio così.- risposi severa, piantando i miei occhi nei suoi. Erano identici, entrambi ereditati da mio padre. Un verde brillante, che avevo sempre amato poichè era una caratteristica che mi accomunava con lui. Qualcosa che mi avrebbe sempre ricordato di essere sua figlia.
-Non è così! Come posso perdonarmi di far compiere loro tutti questi sacrifici? Li vediamo solo una volta ogni due mesi, se va bene! Non ci stanno rimettendo solo loro, ma anche tu!- urlò lui, gli occhi velati di lacrime di rabbia e risentimento verso se stesso.
-Se solo io non fossi mai nato..- sussurrò, facendomi definitivamente perdere il controllo.
Il rumore secco della mia mano sulla sua guancia riempì il silenzio della stanza, mentre il suo eco risuonò per quella che parve un infinità attraverso di essa. Gli occhi di Eric erano sgranati, ricolmi di meraviglia, così come lo erano i miei. In quattordici anni non avevo mai alzato un dito su di lui, trattandolo sempre con condiscendenza e pazienza. Ma quella volta, proprio non c'è l'avevo fatta a trattenermi.
Senza nemmeno rendermene conto mio fratello era fuggito via, e le mie gambe si mossero da sole, cercando di seguirlo.
ERIC!- urlai per le vie della città, chiamandolo disperata.
Non appena lo vidi, fermo in mezzo alla strada della via principale, tirai un sospiro di sollievo.
Mi bloccai, notando come tutto il suo corpo tremasse; lo raggiunsi immediatamente, temendo ad un altro violento attacco. Se gli fosse successo qualcosa, non me lo sarei mai perdonata.
Provai a scuoterlo, ma era tutto inutile. I suoi occhi erano puntati verso l'alto, sgranati e ricolmi di una paura cieca, folle.
Mi girai lentamente, o almeno così mi parve. Tutto si muoveva a rallentatore, come se qualcuno si fosse divertito a giocare con il tempo.
Fu come essere catapultati in un sogno.
Perchè quella mano, che ora stava sgretolando il muro, non poteva essere altro. Non poteva che essere un sogno.
Era tutto così irreale, che, quando le mura crollarono, schiacciate dalla potenza di quell'essere sconosciuto, non riuscii a muovermi, rimanendo come incantata, incapace di compiere qualsiasi movimento.
Era un sogno davvero strano.
Tutto mi sembrava così vero, così maledettamente simile alla vita reale. Il mio corpo non era leggero, come lo sentivo nei sogni; era anzi divenuto dieci volte più pesante del normale, come se un macigno lo tenesse premuto a terra.
Così reali erano anche le urla di orrore e di paura che si elevarono in aria, così forti e disperate da far apparire quella città, che per me era sempre stato un piccolo paradiso, come l'inferno.
Sentii una pressione sulla mano, come se qualcuno mi stesse tirando.
-DOBBIAMO ANDARE VIA DI QUI!- urlò in preda al panico mio fratello, e guardandolo mi chiesi perchè si agitasse tanto.
Quello era solo un sogno. Nulla di tutto quello era veramente reale.
Gli sorrisi, dicendogli di tornare a casa e aspettare il ritorno dei nostri genitori.
-SEI FORSE PAZZA!? DOBBIAMO RAGGIUNGERE IL PORTONE. ANDIAMO.- urlò lui ancora più forte, tirandomi con tutte le sue forte.
Mi feci trascinare, osservando il fuoco e le macerie di Shiganshina come se non li vedessi davvero, intimandomi di restare calma, poichè tutto quello non era reale. Anche quando vidi uno di quei mostri chiamati ''titani'' divorare un bambino restai impassibile, ripetendomi che tutto quello prima o poi sarebbe finito.
Corremmo a perdifiato, sorpassando la nostra casa, di cui ora non rimanevano altro che macerie.
Guardai atona i detriti di essa, mentre le fiamme avevano iniziato a divampare, bruciando tutto ciò che ci circondava.
Mi bloccai, andando a sbattere contro il corpo di Eric. Guardai il gigante davanti ai nostri occhi; per un attimo, un brivido di puro orrore mi pervase, facendomi attorcigliare le viscere dalla paura.
Ma non dovevo preoccuparmi.
Presto ci saremmo svegliati e tutto quello che avevo visto sarebbe svanito, facendoci tornare alla realtà.
Perciò non capii l'urlo di terrore che proruppe dalle labbra di Eric quando il mostro si girò nella nostra direzione, le mani protratte verso di noi, come se ci volesse afferrare.
Riprendemmo la nostra corsa, ancora più furiosa e disperata di prima; sentivo il passo pesante del gigante seguirci, e non ci voleva molto per capire che nel giro di pochi minuti ci avrebbe raggiunti.
-CORRI PIU' VELOCE!- mi intimò mio fratello, aumentando la stretta intorno alla mia mano.
-Merda!- imprecò disperato, quando di fronte a noi, ad impedirci la fuga, si ergeva un muro che sarebbe stato impossibile da scalare.
Eric si pose davanti a me, urlando al mostro di farsi avanti, se ne aveva il coraggio.
In quel momento, però, quando il titano afferrò il corpo di mio fratello, un senso di orrore e angoscia mi fece tremare da capo a piedi. Guardai la scena impotente, mentre Eric urlava il mio nome e protendeva le braccia verso di me, urlandomi di fuggire via.
Seguì la scena come a rallentatore, mentre il suo corpo era a pochi centimetri di distanza dalla bocca del titano.
-NO!-
Un urlo agghiacciante e ricolmo di terrore si elevò nell'aria, il corpo del titano che crollò a terra. senza vita.
Ci vollero parecchi secondi prima di riconoscere la figura che stava aiutando Eric a rialzarsi, abbracciandolo disperatamente.
-Papà..- sospirai, crollando a terra senza forze.
Le sue braccia mi circondarono le spalle, in un stretta ferrea.
-Papà!- urlai quasi, aggrappandomi a lui come se ne andasse della mia vita.
-Cara.. ho avuto il terrore di non fare in tempo.- gemette lui contro la mia spalla, facendomi pietrificare dallo sconcerto.
Perchè, per la prima volta in diciannove anni, lo sentì singhiozzare disperatamente, mentre lacrime salate mi bagnarono il collo. E allora non riuscì più a trattenermi, mentre la consapevolezza prendeva lentamente posto in me.
Tutto ciò che avevo visto non era affatto un sogno; era la crudele, terrificante e semplice realtà.
Quel mondo che avevo sempre cercato di tenere lontano da me, che avevo sempre volutamente ignorato si era violentemente scontrato con la realtà di finzione dietro a cui mi ero nascosta per anni, distruggendola inesorabilmente.
Niente sarebbe stato più come prima.
-Ascoltatemi.- ci ordinò serio lui, riacquistando quella compostezza che lo aveva sempre contraddistinto. -Dovete andarvene di qui. Vi porterò al portone principale; ci saranno delle navi che vi porteranno in salvo, oltre il Wall Maria. Li sarete al sicuro. Avete capito?-
Negai furiosamente con la testa, aggrappandomi nuovamente a lui.
-Non senza te e la mamma! Noi dobbiamo restare insieme!- piansi disperata, sentendo una sensazione d'angoscia espandersi rapidamente in tutto il corpo.
Avevo una bruttissima sensazione. Non potevo permettere che ci separassimo; perchè se fosse stato così, avevo la certezza che non li avrei rivisti mai più.
-La mia missione è quella di proteggere tutti i civili di queste mura. Ma non posso andare se non avrò la certezza che voi due siate al sicuro. Lo capisci questo, Cara?-
Certo che lo capivo.
Era il motivo per cui avevo cercando di essere perfetta fin da quando ero nata.
Annuì impercettibilmente, fissando negli occhi mio padre.
- Sono fiero di voi.- disse solo, abbracciandoci un'ultima volta. Mi tenni stretta a lui, cercando di imprimere sulla pelle il suo odore e la sensazione benefica che mi trasmetteva il suo calore.
Ci ritrovammo, senza nemmeno rendercene conto, a voltare tra gli edifici, così come avevo visto fare molti anni prima da due soldati.
Mi strinsi ancora più forte al corpo di mio padre, iniziando ad intravedere il portone principale.
-Siete voi!- gemette mia madre sollevata, correndo ad abbracciarci non appena mettemmo piede a terra.
Mi aggrappai a lei, stringendola come non avevo mai fatto.
-Mamma.- singhiozzò Eric disperato, inzuppando la sua tenuta di lacrime.
-Figli miei..-
Un sorriso pieno d'amore si dipinse sulle sue labbra, mentre ci stringeva a se e ci baciava la fronte. -Siete la gioia più grande della mia vita. Io e vostro padre vi amiamo più di ogni altra cosa.- sussurrò lei, guardandoci negli occhi.
-Perchè stai dicendo questo!?- quasi urlai, cercando una risposta nei suoi occhi. Una risposta che, sebbene fosse ben chiara, non volevo minimamente accettare. Quello non poteva essere un addio.
-Andate ora.- rispose lei, baciandoci un'ultima volta.
Ma il mio corpo non voleva saperne di staccarsi da lei. Mi opposi con tutte le mie forze alle braccia di Eric che mi strapparono da ia madre, mentre urlavo e mi dimenavo, lottando per non lasciarli andare.
-Abbiate cura l'uno dell'altro.- furono le loro ultime parole, prima di riattivare i dispositivi di movimento tridimensionale e dirigersi spediti verso l'inferno.
-NO!- continua a urlare come una disperata, mentre le braccia di mio fratello mi trascinavano oltre il portone.
-LASCIAMI!- gli ordinai, graffiandogli le braccia e il viso. -LASCIAMI ANDARE ERIC!-
Ma lui non lo fece. Sopportò tutto in silenzio, gli occhi velati di lacrime e il corpo scosso dai singhiozzi. Era distrutto, ma non arretrò mai.
Non seppi come riuscimmo a salire a bordo di quella nave, mettendoci in salvo.
Non sentivo la mano di mio fratello stretta intorno alla mia, o il suo pianto disparato contro la mia spalla; non sentivo le urla della gente, il rumore dei cannoni che venivano azionati. Non vedevo il viso pallido dei superstiti, contorto in smorfie di sofferenza e paura, gli occhi ancora increduli per l'orrore che avevano sperimentato. Non vedevo i loro vestiti sporchi di sangue, ne le mutilazioni di molti di loro.
E soprattutto, non provavo nulla.
Era come un limbo, in cui tutti i suoni erano ovattati, tutte le immagini sfocate, tutte le sensazioni soffocate.
Non potevo descrivere bene cosa fosse.
Era semplicemente la sensazione del nulla, del vuoto.
E mentre alzai gli occhi verso le Mura, un pensiero nacque spontaneo nella mia mente.
Questo giorno sarebbe stato ricordato per sempre come l'inizio di una nuova epoca di orrore e morte.
Non ci avrebbero mai dato pace.

I titani erano tornati, e questa volta con l'intento di piegare definitivamente l'umanità intera.

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⏰ Last updated: Aug 06, 2018 ⏰

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