Sangue per sangue

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4 maggio 1842, sono solo, immerso nella semioscurità che pervade il mio studio al terzo piano di un caseggiato nella periferia di Torino,l'odore di aria stantia è forte, sono giorni che non apro nemmeno le finestre, sono giorni che sono qui, su di una vecchia poltrona a fissare a volte il vuoto, a volte la tela.

Già la tela, mio diletto e tormento, il colore la imbratta restituendo qualcosa che non si può definire arte, non si può definire nulla,solo ciò che materialmente è, una tela con dei pigmenti.

Sono distrutto, reclino la testa all'indietro e chiudo gli occhi, vorrei dormire, ma non posso, la mia mente non me lo permette, i pensieri si susseguono velocemente, sempre gli stessi, sempre scuri, sempre neri.

Mi alzo a fatica, una lama di luce filtra dalla finestra e vedo l'ombra del mio corpo longilineo formare quasi una linea sul pavimento; che ore saranno? Pur avendo i crampi della fame che mi stringono l'addome non ho la minima voglia di mangiare, ho la nausea.

Mi spolvero il gilet nero che indosso sempre, la camicia bianca invece mostra alcune macchioline di vernice rossa sulla manica destra, per non farle notare le arrotolo un paio di volte.

Si così sono perfette.

Mi aggiro nel mio studio come una tigre in gabbia, in mezzo al caos dame creato e che mai ho avuto intenzione di rimettere a posto, tutto era nel posto giusto, magari in bilico, ma se stava li era il suo posto, con passi pesanti vado nella stanza adiacente, i miei quadri mi osservano, ricoprono tutte le pareti, mi fermo al centro della stanza, queste "opere" sono la mia mente, il mio pensiero trasferito su tela...

li odio.

Mio padre voleva che diventassi un ingegnere come lui, fin da piccolo ho appreso i rudimenti della meccanica, ruote, ingranaggi, bielle e contrappesi, la mia mente era così, meccanica, razionale fatta di metallo ma in grado di pulsare e sanguinare.

Un orrore.

I miei quadri, nessuno li ha mai voluti, qualcuno mi ha anche detto che non li userebbe nemmeno per accendere il camino, la maggior parte erano rappresentazioni artistiche di macchine o di meccanismi, pervenire in contro al volere dei clienti alcuni sono ritratti, commissionati e mai pagati;

-sembra il mio ritratto funebre!

Mi ha detto qualcuno, la testa mi gira, tutto mi sembra strano, senza nemmeno accorgermene afferro il coltello dal tavolino accanto la porta, faccio scorrere il filo della lama sul palmo della mano, stringo il pugno, non sento il dolore, sento solo il sangue caldo che mi cola lungo il braccio, resto fermo qualche secondo, poi con tuttala rabbia che ho in corpo colpisco con la mano aperta la faccia di quel vecchio grasso borioso, che mi osserva dipinto, mentre il coltello glielo conficco dritto in mezzo agli occhi, squarciando la tela a metà, un suono terribile che riecheggia più nella mia mente che nella stanza.

Cado in ginocchio piangendo, non so nemmeno perchè, dopo qualche minuto mi rialzo, la mano sinistra comincia a farmi male, credo che dovrei fare qualcosa. Mi lavo e mi medico alla buona, con un pò di tessuto trovato in giro per casa mentre sento i rivoli di lacrime che si asciugano, mi accarezzo il viso, mi accorgo solo ora di avere una barba incolta di alcuni giorni, dovrei radermi, ma non riesco a guardare la mia immagine riflessa nello specchio, vedo solo un povero fallito e abbandonato, probabilmente senza talento che si ostina a fare qualcosa che non è minimamente in grado di fare.

Comincia a mancarmi l'aria, devo uscire, non indosso cappotto o giacca,l'unica cosa che indosso è un vecchio cappello a cilindro con dei grossi occhiali dalle lenti scure e con la struttura in cuoio,costruiti da me, fissati sopra. Esco fuori e respiro un po' d'aria fresca, chiudo la porta e con la mano accarezzo l'ossidata targa in ottone che riporta il mio nome, Davide Salmacchi, se fosse per mio padre non potrei nemmeno usare il cognome di famiglia.

Sangue per sangueWhere stories live. Discover now