Prurigine

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«᾽Eπεί μ᾽ἔρως ἔτρωσεν, ἐσκόπουν ὅπως
κάλλιστ᾽ ἐνέγκαιμ᾽ αὐτόν,
[...] σιγᾶν τήνδε καὶ κρύπτειν νόσον.»

«Da quando amore mi ferì, io cercai
come sopportarlo nel modo più nobile,
[...] tacere e nascondere questo morbo.»

(vv. 392-393.395)


All'inizio sembrava una cosa di poco conto.

Aveva fatto capolino in un recondito angolo della sua mente, un giorno come molti altri, ma aveva tutta l'aria di essere uno di quei pensieri che dopo un po' svaniscono nel nulla, se non uno non vi riflette troppo intensamente.

Tutto era cominciato quando un mattino, mentre attraversava a passo svelto i giardini per rientrare a palazzo, aveva distrattamente posato lo sguardo su di lui, tutto intento a incerare il suo arco all'ombra degli alberi. Era così preso dalla sua opera che non l'aveva nemmeno notata. Chino sul simulacro della sua dea, i capelli color della pece che gli coprivano disordinatamente gli occhi, passava le dita flessuose sulla corda, con un movimento preciso e delicato al pari di un suonatore d'arpa.

Era stato quel gesto a colpire Fedra.

D'un colpo aveva realizzato la sconvolgente bellezza del figliastro.

Non vi aveva mai riflettuto a lungo, a dire il vero. Le occasioni in cui i due si incrociavano erano rare e quelle in cui scambiavano qualche parola ancor di più, soprattutto se il re non era con loro. La donna, come Teseo aveva voluto, non sapeva molto del fanciullo: era a conoscenza solo della sua straordinaria dedizione verso la caccia, che andava di pari passo con la sua fedeltà alla dea che la proteggeva.

Dopo quell'episodio, invece di sparire come Fedra, in cuor suo, avrebbe desiderato, quel pensiero cha pareva piccolo e del tutto insignificante era cresciuto ancor di più. Come un prurito sottopelle, terribilmente fastidioso, a cui ci si sforza di non pensare nella speranza che passi.

Così la donna di ostinava a far finta che non esistesse. Faceva finta che il consueto gesto di Ippolito di scompigliarsi i ricci neri con una mano per scoprirsi la fronte non le facesse venire improvvisamente la gola secca, anche se la sua ancella le aveva appena servito da bere; o che, quando i loro occhi si incrociavano per una frazione di secondo, il suo cuore non scalpitasse come un cavallo che si oppone al morso.

Le cose si erano complicate ancor di più da quando Teseo era stato costretto a lasciare il palazzo per un breve periodo. Durante il giorno si evitavano abilmente, muovendosi ognuno nel rispettivo territorio: Ippolito trascorreva le sue giornate a caccia nel bosco, lei a palazzo, a fare le veci del marito. Ma quando calava la sera, le membra si indolenzivano e gli stomaci iniziavano a brontolare, i due erano costretti a sedersi alla stessa tavola, per di più senza la presenza conciliante di Teseo che propendeva ora per l'uno, ora per l'altra.

Era a cena che la tensione saliva e Fedra, per una questione di pura formalità, si sforzava di fare un po' di conversazione. Ma le parole, le espressioni e soprattutto i gesti del fanciullo, di cui tante volte era stata testimone senza farvi troppo caso, adesso le apparivano come del tutto nuovi e destabilizzanti. Più volte rimaneva con la mano a mezz'aria, a metà fra il piatto e la bocca semiaperta e, dopo essersene resa conto, rossa di vergogna, sperava che lui non si fosse accorto di nulla.

Intanto l'irritante prurito cresceva, cresceva, ma Fedra continuava ad ignorarlo, astenendosi dal grattarsi per porvi rimedio, perché toccarlo con mano avrebbe significato ammettere la sua esistenza e questo lei, nella sua posizione di moglie e regina, non poteva permetterlo.

Ma, man mano che passavano i giorni, i pensieri continuavano ad aumentare, ad affollarle la mente. Resistervi diventava sempre più difficile e, per farlo, Fedra doveva far appello a tutto il suo autocontrollo.

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