La Sabbia d'Inverno

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Tornai a quella spiaggia con una scatola di gessetti. La prima visita mi aveva innervosito molto ed ero piuttosto accigliato quando vi rimisi piede.

La prima volta. Lo scenario era senza alcun dubbio molto poetico. Seduto sulla sabbia, a gambe incrociate. I piedi scalzi e un taccuino sulle ginocchia. L'alba. O il tramonto, non lo ricordo neanche. Fissavo le onde rincorrersi e assalirsi, ingrossarsi e infrangersi l'una nell'altra in una romantica tempesta di spuma. Mordicchiavo una penna e cercavo parole nuove per descrivere quella scena antica. Mi resi conto che non ce n'erano. Che il mare d'inverno era una fantasia tanto stupenda da divenire banale, abusata. Un saggio pieno di luce una volta mi disse che stupenda era un aggettivo da telenovela. Nella struggente angoscia del momento, lo ringraziai sottovoce.

Tirai un lungo sospiro. Presi una manciata di sabbia e lasciai che i granelli mi sfuggissero con dolcezza dalle dita. Era così bella, così chiara. Troppo chiara. Bianca.
Mi guardai intorno e fu tutto ciò che vidi. Un bianco candore, un vuoto accecante. Ecco cos'era quella spiaggia d'inverno: una pagina asciutta, una canzone vuota. Altro che mare! Tutti quei granelli potevano essere storie, colori, parole. Ma non c'erano piedi a pestarli, non c'era acqua a bagnarli. Decisi che avrei dato loro un volto, una forma. Mi alzai in piedi e scappai via correndo.

Ero tornato. Tirai fuori i gessetti dalla scatola e mi accovacciai sul suolo sabbioso. Cosa avrei disegnato? Un volto, una persona. Ma non ero così bravo. Allora avrei scritto il suo nome. Ma era così scontato, mi sarei sentito la macchietta di un film adolescenziale americano. Presi il cellulare e cercai una di quelle opere inquietanti di McKean. Ma non avevo abbastanza colori e poi, dopo un po', la vista di quelle realtà distorte e dai tratti oscuri aveva iniziato a inquietarmi. Ci sono corde, in un uomo che sarebbe meglio non toccare mai.

Con le gambe che tremavano e l'espressione vagamente turbata, mi spostai di lì. Non va bene, non va bene. Forse è il posto. Non è questo il posto giusto dove incominciare. Mi allontanai dal mare, seguendo il sentiero che mi avrebbe in qualche modo condotto alle strade e all'asfalto. La sabbia si faceva più rada, più sporca. Calpestai un mozzicone di sigaretta ancora acceso e sentii la pianta del piede che iniziava a scottarsi. Lo sollevai urlando e caddi. Mi guardai intorno confuso. La spiaggia era deserta, chi poteva averlo lasciato lì?

La prima volta che ero caduto su un terreno simile, c'era un sole diverso. Più caldo, più invadente. Il sole vivido e acido degli ultimi giorni di primavera, quando la mattina ti svegli con una stanchezza al di là di te stesso nelle ossa e trovi la giornata già lì ad aspettarti, sfrontatamente iniziata. Ero seduto con la fronte nascosta tra le ginocchia, ed ero in pezzi. Ero certo di urlare, gridare fortissimo e non mi sentiva nessuno. Attorno a me angoscia, dipinti di morte e macabre immagini di mutilazione corrompevano la matassa dei pensieri. Vedevo le mie parti del corpo andare via. Un piede dalle caviglie insanguinate. Le gambe fisse al suolo, prosciugate di ogni forza. La testa rotolata via, lontano. Le braccia stanche, che con le ultime loro forze tentavano di scuoiarmi il ventre. E il petto. Quel petto pesante, appassito, marcito, raggrinzito. Nero. Quel petto da cui era partita tutta la corruzione del mio cuore. Urlavo e non mi sentiva nessuno. Persi la voce, le forze, ogni parte del corpo e mi abbandonai lì, attendendo che quello stupido sole potesse almeno consumarmi, corrodermi. Farmi evaporare via, rendere leggero.

Fu allora che lei si alzò dall'angolo di sogno in cui si era rifugiata, con una grazia che mi fece quasi credere danzasse. Come se degli archi avessero iniziato a suonare una canzone dolce, lontano. Pianissimo. Si sedette accanto a me, raccolse quei piccoli abomini con la delicatezza con cui si colgono le fragole nei boschi. Mi prese la testa tra le mani. Perdonò ogni mia sconfitta. E ad un tratto mi ritrovai di nuovo debole, fragile, friabile. Ma integro.

Decisi che neanche quello era il posto giusto e mi avvicinai nuovamente alla riva. Avevo in mente un'opera grandiosa. Avrei fatto specchiare tutto l'universo in quella spiaggia. La vastità del cielo, il candore delle nuvole, la grandiosità dei monti e il verde vivo delle selve. Mi chinai per disegnare tutto ciò, ma mi accorsi che il suolo non era più liscio. Ovunque mi girassi c'erano degli intoppi, dei piccoli elementi di disturbo che il mare aveva lasciato lì a rovinare la mia opera. Non potevo tracciare una linea senza incrociare conchiglie, sassolini, gusci di paguro, ricci e orecchie di mare. Tirai fuori un arancione un po' sbiadito e, quando fui sul punto di strofinarlo sulla sabbia, un granchietto dello stesso colore si frappose tra me e la mia superficie da disegno, impedendomi di incominciare la mia opera.
Il mio sguardo schizzò al cielo e, affranto, iniziai ad imprecare. Non capivo perché l'universo ce l'avesse tanto con me e col mio tentativo di riempire quella pagina bianca.

«È inutile che continui. Non vedi che non c'è spazio, lì?»

Mi voltai. E vidi che quella frase, urlata da un qualche punto lontano, proveniva da una strana figura seduta sugli scogli: un vecchio, del quale non avevo notato la presenza fino a quel momento. Aveva una barba ispida e poco curata e lo sguardo incrostato di salsedine, fisso tra le onde. Mi avvicinai a lui e gli parlai senza quel timore che mi aveva sempre afferrato nel rivolgermi agli sconosciuti. Gli parlai con naturalezza, come si fa nei sogni.

«Non so da dove iniziare. Questo posto è così vuoto.»
«Vuoto? Ma lo hai visto bene?»
«Sì. Tanto che ho avuto angoscia a guardarmi intorno. È tutto così incolore, così informe, che mi son sentito perso.»
Si voltò a scrutarmi per la prima volta. Ressi per qualche secondo il peso del suo sguardo che si piantava nei miei occhi e poi, come una falena tra le luci della notte, iniziava a vagare impazzito sulla bianca distesa di sabbia.

«Ma come? Non hai trovato lì forse i rifiuti, le cose che la gente non vuole più?» e indicò il punto dove mi ero scottato col mozzicone di sigaretta. «E non erano forse ricordi, quelli che hai trovato lì in mezzo?» Stavolta proprio non capivo come facesse a sapere. «E qui, qui vicino non c'erano forse conchiglie, ricci e tutta la vita che viene dal mare?»
Lo fissai con la forza della più adolescenziale convinzione di aver capito tutto della vita. «Ma sono cose insignificanti! Questa spiaggia è vuota, è bianca. Io avrei potuto darle una forma, un volto, un senso.»

Il vecchio non mi guardava più. Si era voltato ancora verso le onde e lasciava che la brezza marina gli accarezzasse il viso, con gli occhi socchiusi. Li riaprì, e perse nel mare lo sguardo di chi sa di non aver capito proprio tutto della vita, ma qualcosina almeno l'ha imparata.

«Credi davvero che sia stato creato tutto per i tuoi occhi? Bisogna farsi piccoli, a volte, per vedere bene. A volte si è troppo lontani, altre volte semplicemente troppo vicini. Bisogna avere gli occhi del paguro, di tanto in tanto. O del granchio. O di un viandante disperato del deserto, di un marinaio che sospira malinconico il ritorno, di un ragazzino che tra le curve della sabbia disegna quelle del suo primo amore.»

«E la mia opera? Che fine fa la mia opera?»
«Hai così tanto bisogno di dare un colore a questa sabbia?»
«C'è rabbia, qui dentro. C'è odio. C'è speranza, c'è gioia, c'è rancore. Ci sono mille storie di cui raccontare, mille mondi fantastici da delineare. Un racconto triste, di struggimento e malinconia. Che fine fa tutto questo, se la sabbia non trattiene i colori?»

«Qui.»

Mi fece segno di sedermi accanto a lui. Mi arrampicai sugli scogli e feci caso soltanto allora a una scatola di pastelli a cera, abbandonata un po' a se stessa in un angolino e dall'aria piuttosto usurata. Doveva essere stata aperta, molto tempo prima, ma i pastelli all'interno non erano mai stati consumati. Mi fermai su una roccia stretta e livellata.

«Ci provasti anche tu...»
«Hai molte storie da raccontare, vero?»
«Sì.»
«E io ho tempo per ascoltarle.»
«E che si fa se non è il posto giusto? Se non è il momento giusto? Che si fa se le storie sono troppo inconsistenti, troppo disgustose, troppo lontane da questo candore, per insinuarsi tra questi granelli di sabbia?»
«Cosa cerchi?»

Mi fermai a riflettere un attimo. Una domanda così inaspettata meritava una risposta sincera.

«Un'alba che sappia perdonare e un frammento di cielo ancora libero dal tempo e i suoi peccati.»
Non rispose, ma curvò piano la bocca in un sorriso paterno.
«Qui è tanto bello, lo so.» gli dissi. Cercavo le parole con difficoltà: «Ma che si fa se qui non ci si sta più?»
Mi feci accanto al vecchio e lui mi indicò le onde.

«Il mare?»
«Il mare è un buon posto per partire.»

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