Capitolo IV

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L'uomo mascherato continuava a sorridere beffardo, sentivo la barba ispida e pungente strusciare contro la plastica bianca della maschera.
"Io sono il tuo padrone". Che cosa voleva dire con questo? Che cosa avrebbe fatto di me?

Per la seconda volta da quando mi ero svegliata in quello stanzino, avevo paura.
Non avevo mai smesso di averne, ma per la seconda volta mi accorsi di quanta paura avvolgesse il mio corpo, di quanta paura facesse battere così velocemente il cuore.

L'uomo prese a parlare, scandendo ogni singola parola:
«Da oggi in poi sarò il tuo signore, il tuo padrone. Sarò l'unico re che servirai e l'unico dio che adorerai. Da oggi tu sei mia, completamente mia, finalmente mia».
Sentivo l'odio e la pazzia nella sua voce. Potevo sentire il sangue iniettarsi nei suoi occhi.

«Cosa... cosa stai dicendo?» chiesi ormai sopraffatta dalla paura.
Improvvisamente sentii una forza potentissima incombere sulla mia guancia sinistra con un violento slap. La mia guancia si fece rossa e potevo sentire il segno del suo palmo ardere sulla mia faccia.

«Zitta. Devi stare zitta» disse a denti stretti. Si avvicinò a piccoli passi, minaccioso, le vene sui pugni serrati erano sempre più gonfie e minacciavano di scoppiare da un momento all'altro. Mi prese il viso tenendo stretto il mento tra il pollice e l'indice, alzandolo leggermente.

Iniziai a piangere: un pianto silenzioso, fatto di singhiozzi, lacrime a fiumi e piccoli lamenti. La mia faccia era contratta la paura e le lacrime mi bagnavano le guance poi qualcuna scendeva verso la bocca, altre deviavano verso le orecchie - a causa della posizione della testa - bagnandomi i capelli.
Ogni tanto qualche singhiozzo spezzava prepotente la serie di affanni e gemiti, i polsi e le caviglie incatenate, il viso in fiamme e quelle due dita sporche e ruvide sul mento... stavo per impazzire, volevo scoppiare, mi sentivo in qualche modo compressa, come costretta in una piccola scatola gettata tra le fiamme dell'inferno.

Volevo gridare, volevo agitarmi, liberarmi ma sapevo che era tutto inutile.
L'unica cosa che potevo fare era restare lì, in ginocchio sul freddo ed umido pavimento, legata col volto rialzato a piangere, gemere e singhiozzare.

Il padrone iniziò a calarsi, vedevo la sua maschera sempre più vicina. Di lì a poco mi fù talmente vicino che potevo sentire il suo respiro affannoso intrappolato nella maschera creare una piccola condensa, come accade con le maschere di carnevale che ad un certo punto ti danno fastidio e le togli. A lui sembrava non dare fastidio in alcun modo. Restava impietrito, immobile, con il mio mento tra le mani a respirare rumorosamente.
Sentivo il freddo della plastica sul mio naso e nel silenzio dello stanzino illuminato dalla sola luce biancastra e fioca del lampadario nero i nostri cuori che battevano riempivano lo spazio di tu-tump assordanti.

Non riuscivo a vedere i suoi occhi dalla piccola fessura nella plastica che li oscurava del tutto, lasciando solo un buco scuro dietro il muro bianco che gli copriva il volto.

Restò così, immobile per alcuni interminabili attimi che passai a chiedermi cosa stesse per fare. Poi si mosse: con una forza incredibile strinse il mento tra dita, sentivo l'osso quasi distruggersi. Lanciai un urlo. Nello stesso momento con un gesto veloce e violento del braccio mi spinse a terra.

Restai lì, stesa sul pavimento bagnato di lacrime a stringermi il mento tra le mani. Lo vidi che tornava indietro, saliva le scale, spegneva la luce e usciva, sbattendo la porta.

Così restai stesa, nel buio soffocante della stanza a piangere, sempre il mento tra le mani. Pensavo a Vale, a Lia, all'Università, al professore di spagnolo... a Paolo. Se soltanto fossi andata a mangiare a casa con Paolo tutto questo non sarebbe successo, forse.

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Il volto del padroneWhere stories live. Discover now