Il caos è un animale silenzioso.

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Se ne stavano così, uno di fronte all'altra, senza parole da dirsi, ma solo occhi da darsi. Se ne stavano così, immobili - che immobili non lo erano mai davvero - nel bel mezzo di un niente colorato di verde. Immersi nel silenzio torbido della primavera duemilaventiduemilaventi. Duemilaventi. Duemila e venti di cielo meno grigio.

«Potevi metterti una camicia a quadretti!?», aveva smesso di giocare con i piedi che a peso morto sforbiciavano avanti e indietro, le mani tenevano il cofano nero e polveroso di una jeep e ogni tanto slittava sul culo in avanti. Meno polvere sul cofano, più polvere sui pantaloncini.

«Potevi darmi più preavviso.», a questo punto era chiaro che lui non aveva idea di cosa indossare per starsene in mezzo ai campi sotto il sole insofferente delle sei post meridium. Lei non aveva idea di che faccia indossare ogni volta che lo aveva davanti, stavolta di tempo ne era passato un po'.

«Potevi osare meno nero!?», piega la testa, appoggia i talloni degli stivaletti al parafango dell'auto. Lo fissa perplessa. Lo fissa divertita. Lo fissa e salta giù. Lui fuma, continua a farlo. Continua ad abbassare e alzare la mano, strizzando appena le palpebre poco prima che il fumo gli scappi di bocca.

«Potevi osare di più!?», non si muove. Non si sposta. Se ne sta lì, appollaiato sul cofano di una jeep bianco sporco, perché sporca quella macchina lo è davvero. Se ne sta lì a fissarla come se al mondo - in quel pezzo di mondo- non ci fosse altro. In effetti, non c'era davvero altro.

«Secondo te, il mio braccio è lungo un metro?», lo chiede spostando lo sguardo da lui al proprio braccio, studia mentalmente la loro distanza. Intanto cammina lentamente. Fastidiosamente, piano. Punta il braccio contro di lui, poi lo butta giù a peso morto. Alza lo sguardo su di lui, puntandogli addosso tutta se stessa.

«Perché abbiamo passato il tempo a misurarti l'uccello e mai il mio braccio?», se ci fosse qualcuno con un buon umorismo, adesso lo infilerebbe valutando i tempi tecnici che servono a far ridere la gente. Lei no, non aveva un buon umorismo e, cosa da non sottovalutare, non stava facendo ironia. Era davvero infastidita.

«Perché ovviamente il mio cazzo è più bello del tuo braccio.», neanche lui era ironico, però lui voleva apparire così. Ironico. Lei si morde la bocca, solo perché sorridere adesso significava dargliela vinta. Allunga la mano sinistra, il cui polso è carico di un numero imprecisato di bracciali di colori e materiali diversi, sottrae la sigaretta dalle sue dita.

«Uno a zero per te.», annuisce con una smorfia di finta accettazione -altrimenti nota come broncio tattico, tanto per smentire il risultato dichiarato. Si infila la sigaretta la tra le labbra senza mai mollarla con l'indice e il pollice, tira un lungo sorso di sigaretta fatta a mano. Ma proprio lungo. Lungo, come quelli che fai quando una cosa -quella cosa - non la stai facendo da un sacco.

«Stai violando il metro di distanza....», la avvisa, lei lo ignora. È più concentrata a ricordare com'è quando il calore del fumo ti entra dentro, è più concentrata a ricordare per quanto tempo devi trattenerlo -il fumo, prima di lasciarlo andare via. 

«Che stai facendo?», lei lo ignora. Lui salta giù dalla macchina, lei esplode con colpi di tosse improvvisi e violenti. Tossisce forte, piegandosi su sé stessa, ha la prontezza restituirgli quel che resta della sigaretta.

«Cazzo!?!.», si riprende dopo una manciata di secondi, lo guarda malissimo. «Pensavo fosse una canna..», piegata in avanti, con una mano sul ginocchio e l'altra al collo, riprende fiato. Respira. Poco a poco, lei torna a respirare. «Dai, lo facciamo?», quando non sai dove mettere le mani, infilare la camicia dentro i pantaloncini di jeans sembra essere un buon metodo per non metterle in posti sbagliati. Lui, lo stava guardando come se fosse un posto. Non un "bel" posto, ma il "suo" posto.

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