TEODORO

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I tiepidi raggi del primo sole mattutino mi solleticavano la pelle nuda, emisi un sommesso mugolio di disapprovazione e mi tirai con forza le lenzuola sugli occhi per proteggermi dalla luce. Ne inspirai il profumo fresco di pulito misto a quello della salsedine portata dal vento e cercai di riordinare le idee.

Avevo la mente offuscata: in sonno ero stato tormentato da immagini fugaci e terrificanti di fiamme altissime che divoravano qualsiasi cosa incontrasse il loro cammino, di persone riverse a terra nel loro stesso sangue. Grida assordanti di dolore e di paura mi avevano perforato i timpani e squarciato il cuore per ore mentre cercavo invano di dibattermi, di intervenire, di porre fine a quell'orrore.

Abbassai le lenzuola lentamente, faticavo a tenere le palpebre aperte e ogni movimento, anche il più piccolo, mi provocava lancinanti fitte di dolore che dalle tempie si propagavano in tutto il corpo.

Non riconobbi la stanza in cui mi trovavo, era un ambiente austero e scarno; lasciai scorrere velocemente lo sguardo sui tappeti che coprivano il pavimento e realizzai di aver dormito per terra, in un giaciglio di fortuna.
Cercai di mettermi a sedere, ma il mio corpo venne scosso da un violento capogiro. Fui costretto ad aggrapparmi alle lenzuola e rimanere perfettamente immobile alcuni istanti per non ricascare pesantemente all'indietro, ma fu quando riaprii li occhi che rimasi realmente paralizzato.

A pochi passi da me, sdraiato a pancia in giù su un letto, c'era un ragazzo che mi fissava con un'espressione di garbato distacco: teneva le gambe sollevate e le piante dei piedi nudi erano rivolte al soffitto, il volto aveva lineamenti affilati e delicati, mentre la pelle candida contrastava nettamente con il rosa intenso delle labbra carnose e il nero profondo degli occhi.
Lunghi capelli corvini gli cascavano scompigliati attorno e si muovevano fluidamente seguendo ogni suo più piccolo movimento; nella mano destra teneva una mela dorata mezza mangiucchiata, mentre quella sinistra sosteneva con noncuranza il mento.

Istintivamente indietreggiai schiacciandomi contro la parete alle mie spalle, il cuore aveva preso a battermi all'impazzata mentre una fastidiosa morsa mi si era stretta con forza attorno allo stomaco. Una sgradevole sensazione di panico cominciò a serpeggiarmi nelle viscere, non avevo idea di chi fosse quel ragazzo ma qualcosa dentro di me, forse l'istinto, forse un sesto senso che non sapevo di avere, mi stava mettendo in guardia: non mi trovavo in un luogo sicuro.

Lui si mosse con una sveltezza tale che, nonostante la paura, non potei che lasciarmi ammirato: il suo corpo snello e slanciato si spostava nello spazio circostante con un incedere sicuro e silenzioso, simile a quello di un felino.
Mi si inginocchiò di fronte, talmente vicino che riuscivo a sentire il suo respiro caldo sulla pelle. Un vago sentore di mela emanava dalle sue dita, ora poggiate delicatamente sulla mia fronte, mentre il profumo di rosa e cannella della sua pelle e dei suoi capelli mi solleticava le narici.

C'era qualcosa di familiare in lui, nel suo tocco gentile, nel suo odore dolce e avvolgente, ma non riuscivo a mettere a fuoco nessuna immagine in grado di darmi qualche risposta.

-Ti fa ancora male?- Chiese cominciando a spalmarmi un unguento dall'odore pungente e nauseante sulla fronte, scossi la testa cercando di reprimere un conato di vomito. In realtà la pelle pizzicava e tirava, dedussi che il ragazzo mi stesse medicando una ferita, forse un taglio ormai in via di guarigione.

Lui annuì tra sé e sé e cominciò a slegarmi le bende che mi coprivano i polsi, seguivo i suoi movimenti precisi e misurati con curiosità, non ricordavo di essermi procurato simili ferite, mentre lui sembrava avervi molta familiarità.

-Come ti chiami?- La sua voce era piatta, distaccata. Chiusi gli occhi, la morsa che mi attanagliava lo stomaco si fece più forte, dolorosa, mentre il cuore prese a battermi in petto con una violenza tale che sembrava voler fuggire, eludere la sorveglianza della gabbia toracica e abbandonarmi per sempre.
Serrai ancora di più le palpebre e scossi il capo con forza mentre il fiato mi si faceva sempre più corto e si bloccava in gola in una morsa stringente; aveva stretto i pugni con una foga tale che le unghie mi si erano conficcate dolorosamente nella carne dei palmi e i polmoni mi bruciavano al punto che riprendere fiato era diventato pressoché impossibile.

La memoria del corpoWhere stories live. Discover now