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Io, qui, non dormo. Il sangue
vede, patisce,
e si agita dentro, si gira
e si rivolta, e smania.
Umberto Fiori

A Riccardo pareva surreale come da quel ristorante in centro a Milano fossero arrivati, alle quattro di notte, a mangiar gelato sul divano di Alessandro. Eppure non c'era niente che gli paresse surreale adesso – dalla sua guancia sulla spalla di Alessandro, al telecomando che da mezz'ora selezionava sempre lo stesso titolo su Netflix –, tutto era come avrebbe dovuto essere, perché stare con la guancia sulla spalla di Alessandro era quello che aveva desiderato fare dalla prima volta che si erano stretti la mano.
«Piacere di conoscerti» gli aveva detto Alessandro, quel suo aspetto impostato incastrato in ogni fibra del suo essere, come se gliel'avessero cucito tra le trame della pelle. La curiosità, già accesa in Riccardo, era divampata in un incendio quando l'aveva sentito cantare sulla melodia suonata da Michelangelo – quando Alessandro aveva chiuso gli occhi, perso nelle parole che gli vorticavano in testa, e aveva cantato con quella sua voce di violino.
Le viscere di Riccardo, in quello studio, avevano fatto la centrifuga. La mano di Alessandro, alzata a mezz'aria per non perdere l'intonazione, il modo in cui rideva, come gli aveva rivolto un occhiolino – e niente più – quando lui e Riccardo si erano salutati, tutto di lui l'aveva rivoltato come un calzino e da allora Riccardo non era più stato lo stesso: voleva il suo sguardo addosso, toccarlo in continuazione, innervosirlo fino allo sfinimento, così che in testa avesse soltanto Riccardo, Riccardo, Riccardo.
E ora avevano deciso di andare a bere qualcosa, avevano ordinato due drink e a Riccardo era improvvisamente venuto da vomitare.
«Sono impegnato stasera» stava dicendo Alessandro al barista. «Mi dispiace».
Il barista aveva guardato il viso smarrito di Riccardo e poi si era di nuovo voltato verso Alessandro. «Sei sicuro che sia maggiorenne?»
Alessandro era scoppiato a ridere. «Ma mica me lo porto a letto!»
Riccardo aveva lasciato il suo drink sul bancone – forse rovesciandolo? – e cercava freneticamente il simbolo del gabinetto in quel trip di colori e luci intermittenti, disperato come il subacqueo che finisce la bombola dell'ossigeno a metà strada verso la superficie. Gli girava la testa, sudava freddo nel caldo soffocante di quel posto – dello sguardo che Alessandro aveva rivolto al barista.
Si accorse che l'altro gli era accanto quando la sua voce gli sibilò nelle orecchie – Riccardo – e poi le sue mani sulla sua schiena come una doccia gelata, come i fanali prima del frontale, che compaiono sempre troppo tardi, quando si sa già che si sta per morire.
E Riccardo effettivamente credeva di star per morire, di soffocare nei suoi stessi sentimenti, che non capiva e che non voleva capire, perché accettare che quella morsa allo stomaco fosse gelosia significava accettare un altro milione di cose, e lui non ci voleva neanche pensare.
«Ale» aveva urlato – o sussurrato. «Ale... non mi sento bene».
Si era ritrovato fuori, seduto sul marciapiede, nel petto di nuovo la calma e nella testa un vortice di pensieri sconnessi, parole, immagini – immagini di Alessandro (di Alessandro insieme al barista); aveva sollevato lo sguardo e c'era solo lui, come sempre da quando si erano conosciuti – solo il suo viso, le sue mani su di sé, la bocca che diceva qualcosa.
«Riccardo» lo stava chiamando, ma lui era perso nel suo attacco di panico – uno degli attacchi di panico più terrificanti che avesse mai avuto, perché non veniva dal cervello, ma dal cuore. Aveva avuto un attacco di cuore – uno in piena regola–, la causa la persona che adesso lo stava rimettendo insieme.
«Mi senti?» gli aveva chiesto. E voleva parlare, annuire, fare qualcosa, ma adesso che la paura – vecchia amica –  era passata gli veniva solo da piangere. «Ricky...» gli aveva toccato il viso, i capelli, asciugando con i pollici là dove le lacrime cadevano. Riccardo avrebbe voluto dirgli che asciugare non serviva a niente, che il sale aveva già iniziato a corrodere ogni cosa sul suo viso, che quando si inizia a piangere per qualcuno è la fine.
«Voglio andare a casa» aveva sussurrato, e Alessandro l'aveva aiutato ad alzarsi e a salire sul taxi che aspettava da mezz'ora.
E adesso che il panico era passato – che il cuore aveva ripreso a battere regolarmente e che baristi insolenti non erano più nelle vicinanze –, Riccardo si godeva le coccole di Alessandro, il cucchiaio abbandonato dentro la ciotola del gelato, che era in bilico sulla coscia dell'altro.
«Non ti va di andare a letto?» Alessandro aveva appena sbadigliato, ma il braccio che teneva attorno a Riccardo era forte e sicuro, era l'appiglio di lui per contrastare la vertigine, il lenzuolo tirato fin sopra la testa dal bambino che ha paura del buio e dei mostri – ma i mostri di Riccardo danzavano nel buio che aveva dentro.
«Posso dormire con te?»
Il gelato si stava sciogliendo, il cielo rischiarava rapidamente e nella sua testa tutto andava, andava, andava; non riusciva a concentrarsi su niente in particolare, non un solo punto che riuscisse a mettere a fuoco – nessun punto che non fosse dell'iride di Alessandro, del pigmento delle sue labbra, del dondolio del suo orecchino singolo quando annuì.
Si trascinarono nella camera da letto di lui – Riccardo non ci aveva mai dormito – e il lenzuolo sapeva solo di Alessandro, così come il cuscino, i quadri, le abat-jour, gli occhiali che teneva sul comodino accanto ad un libro. Si rannicchiò su se stesso, perché anche se era l'inizio di luglio – e l'aria condizionata nella stanza era spenta, e aveva il cuore arroventato – si sentiva gelare.
Abbracciami, desiderava dirgli. «Abbracciami».
Aveva sempre avuto questo problema, non riusciva mai a fermarsi in tempo quando si trattava di certe cose – Riccardo non riusciva mai a fermarsi in tempo, mai. Pronunciava le parole che non avrebbe dovuto pronunciare, si fidava delle persone che poi l'avrebbero tradito, si tuffava di testa in ogni specchio d'acqua – e quante volte questi si erano rivelati soltanto pozzanghere.
Perciò non perse neanche tempo a rimproverarsi, perché non serviva a nulla e sapeva che l'avrebbe rifatto un altro milione di volte.
Alessandro non disse niente, ma il braccio attorno alla vita glielo passò, e quando si apre la mano sullo stomaco di qualcuno, lì dove ogni cosa vortica e impazzisce – e si sente che vortica e impazzisce – le parole non hanno molta importanza.

Afrodite | Mahmood e BlancoWhere stories live. Discover now