45.

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Ho realizzato di essere innamorata dello stesso ragazzo che mi ha appena spezzato il cuore come se niente fosse. E io gli ho persino regalato un maledetto plettro con le sue iniziali. Ma quanto posso essere patetica? Dio, non penso ci sia un'unità di misura abbastanza ampia per descrivere la vergogna che provo in questo momento. Mi sento male al solo pensiero di rivedere Vivienne fra due giorni. Prima pensavo che intorno a me non sarebbe cambiato nulla e me ne preoccupavo, adesso realizzo che non me ne frega un accidente di cosa succede agli altri perché sono io a essere cambiata, io a sentirmi imbarazzata e umiliata dai miei stessi pensieri. Non ho mai pensato che le cose sarebbero cambiate in meglio tra di noi, mai, eppure... uno stupido barlume di speranza si è acceso nel momento in cui ha iniziato ad avvicinarsi. Barlume che il vento, o meglio, lui stesso ha scacciato via con tre semplici frasi.
«Non possiamo più andare avanti.»
Lo abbiamo fatto? Quando?
«Questo... noi, è troppo. Meglio chiuderla»
C'è mai stato un noi al di fuori del dannato letto? E chiudere cosa, poi? Cosa diamine c'è da chiudere se non è mai iniziato niente?
Sentirgli dire cose del genere e percepire il nulla cosmico nella sua voce mi ha spezzata, fatta a pezzetti. Nonostante ciò, niente mi ha ferito più delle sue ultime parole.
«Lasciala andare e basta.»
Lasciala andare e basta. Come fossi una qualunque, una di poco conto. Ed è così, maledizione, è proprio così! Mi fa infuriare non poterlo nemmeno incolpare di qualcosa. Non mi ha mai illusa a proposito di noi, mai fatto credere di volere qualcosa in più. L'unica da recriminare qui sono io. La povera stupida deficiente che pensava che forse, solo una minuscola parte di lui, ci tenesse un briciolo a me e che quello bastasse per andare avanti e provare qualcosa. Qualunque cosa.
Beh, mi sbagliavo. Come sempre, del resto.
Tiro su col naso e mi accovaccio sul divano con il plaid che giorni fa ho avvolto attorno al corpicino di Furia.
Oddio, Furia.
Un singhiozzo più forte degli altri mi scuote da capo a piedi. Il solo pensiero di non rivedere più il mio tesoro mi distrugge. Mentre io pensavo a definirci genitori di un furetto dolcissimo, lui si occupava di scegliere il momento più adatto per pugnalarmi e giocare con la lama. «Perché fa così male?» singhiozzo. «Perché ci sono dovuta cascare? Stupida, stupida, stupida.»
Me lo diceva sempre mia madre quando mi schiaffeggiava per qualcosa che non le andava bene. A quanto pare non aveva poi così torto. Io sono una stupida. E anche una deficiente illusa che non è riuscita a tenersi il cuore al sicuro e ha iniziato segretamente a sperare di poter avere una chance con lui.
Stringo la mano attorno alla bocca per riuscire a frenare i singhiozzi ma questi non ne vogliono sapere niente, scorrono e mi scuotono da cima a fondo, facendo tremare i cocci di cuore che giacciono in un mucchietto sul fondo della cassa toracica.
Fa male e non mi piace affatto.
Afferro il cellulare. Proverò a Devon Bradshaw che si sbaglia su Internet. Cerco sulla barra di ricerca come si guarisce da un cuore infranto, perché io non ne ho la più pallida idea, e quello che leggo mi fa singhiozzare ancora più forte.
Non trattenere le lacrime: non lo sto facendo, mi sembra.
Disconnettiti da lui: come se fosse uno stupido wi-fi qualunque, certo.
Questa è la più divertente: cambia le tue abitudini. Come diamine faccio a cambiare le mie abitudini quando lavoro con sua madre e gli unici amici che ho vanno dai settanta ai quattordici anni e – fra parentesi – fanno parte della sua famiglia?
Lancio il cellulare da qualche parte continuando a piangere. Ha ragione lui, ancora una volta. Anche Internet sbaglia a quanto pare. Stringo le braccia attorno alle gambe e volto il capo in direzione dell'ampia vetrata. Mi riprenderò, no? Prima o poi andrà meglio. Deve andare meglio. Ho un giorno e mezzo per metabolizzare la cosa e non presentarmi come uno zombie a lavoro.

Salta fuori che un giorno e mezzo non bastano per far cessare le lacrime, dunque, sono costretta a svegliarmi un'ora prima e applicare una quantità generosa di correttore in faccia. In merito agli occhi – rossi e lievemente gonfi – c'è ben poco che posso fare. Darò la colpa all'allergia invernale, se ne esiste una. Tracanno caffè come se la mia vita dipendesse dal bicchiere che reggo in mano mentre raggiungo il Velia's. Secondo il meteo la giornata di oggi potrebbe far concorrenza al famoso ventinove gennaio – il giorno più freddo dell'anno – ma personalmente non me ne rendo nemmeno conto. Potrei competere benissimo con un fiocco di neve per il gelo che sento dentro.
Apro la porta e mi disfo degli occhiali da sole, perché li ho messi poi è un mistero. Ci sono nuvoloni carichi di pioggia da ieri e quella che hanno rilasciato nella notte non sembra abbastanza.
«Avery» il tono incerto di Vivienne mi fa risalire le lacrime agli occhi ma stringo i denti e mi sforzo di sorriderle mentre le porgo un bicchiere.
«Si è freddato un po', scusa.»
«Non... non ti preoccupare» afferra il bicchiere e lo posa sul bancone.
Meglio affrontare subito la cosa e togliersi il pensiero. Non voglio che cammini sui gusci d'uovo a causa mia e poi le devo comunque una spiegazione: oltre ad essere il mio capo e la madre di Devon, è mia amica. Le ho tenuto nascoste parecchie cose e il minimo che posso fare adesso è essere onesta. «Ascolta, non ci girerò intorno... io e tuo figlio andavamo a letto insieme. Tutto consensuale. Era solo quello. Poi ho iniziato a provare dei sentimenti per lui ma prima che potessimo arrivare alla fase in cui lo informavo di questa cosa lui ha preferito troncare perché pensava che stessimo andando oltre. Fine della storia.»
«Non siete stati molto discreti, tesoro, lo immaginavamo tutti... e Alec ci ha dato conferma al compleanno di Tom» mi rivolge un sorriso imbarazzato.
«È stata una défaillance e non mi sono accorta di Alec» spiego.
«C'erano troppe coincidenze. Vi presentate insieme, improvvisamente lui si ferma a pranzo da noi e ti viene persino a fare visita nel periodo di convalescenza... Onestamente, credo sia stato più sciocco da parte vostra pensare di non destare sospetti» accenna una risata. «Per non parlare del fatto che ti ha portata in ospedale, aiutato con il trasferimento... lo hai trascinato al Ringraziamento e-»
«Quello non conta. L'ho ingannato. E le volte in cui è rimasto a pranzo da voi sono state sotto mia minaccia. Mi dispiace dirlo» sospiro.
Vivienne si avvicina e mi afferra la mano, ne accarezza il dorso con fare materno. «È venuto con te ad Allerton e dove vai tu c'è sempre lui di mezzo.»
«Vivi, sono solo state situazioni in cui per minacce o riscatti abbiamo condiviso del tempo insieme» cerco di spiegarle non scendendo troppo nel dettaglio.
«Tesoro, rispondi a queste domande: qualcuno gli ha mai puntato una pistola contro? Qualcuno lo ha mai obbligato a fare quelle cose?» mi osserva in attesa di avere risposte. Dallo sguardo che mi riserva, però, sembrerebbe averle già.
«No, ma-»
«Per favore, Avery, non cerchiamo scuse dove non ci sono» scuote il capo. «Se Devon non avesse voluto stare con te, non l'avrebbe fatto. Te lo assicuro al mille per cento.»
Non so cosa ribattere. Di certo non posso dirle: «ehi, la maggior parte dei nostri incontri si svolgeva sotto le coperte e credimi, non si parlava molto in quei casi», sarebbe assurdo.
«Lui...» Vivienne tentenna per qualche momento. «Lui ti ha parlato di qualcosa in particolare?» chiede.
Aggrotto la fronte, poi la rilasso capendo dove vuole andare a parare. «È questo il punto, Vivi: non mi hai mai raccontato niente del suo passato. L'unica cosa che penso di aver capito – e prendi con le pinze cosa sto per dire – è che forse ha dei dubbi sull'affetto che nutrite nei suoi confronti.»
Vivienne sbianca, colta alla sprovvista dalle mie parole. «E questo che vorrebbe dire?»
«Non lo so» mi sfrego le tempie. «Stavamo parlando di come mi sentissi un'intrusa nella vostra famiglia al Ringraziamento e lui mi ha detto che avrebbe dovuto essere lui l'intruso piuttosto che la sottoscritta. Gli ho detto che non sarebbe mai stato così perché a prescindere da qualunque cosa sia successa, siete la sua famiglia e gli vorrete sempre bene» spiego.
«Non è compito mio parlartene, Avery, ma posso assicurarti che Devon non era così... gelido prima. È sempre stato divertente, amorevole, gentile. È stato amato così tanto da piccolo... lui è il primo figlio, il primo cugino. E anche se non lo fosse stato, sarebbe comunque l'amore della nostra vita» i suoi occhi si riempiono di lacrime, due le solcano il viso, ma lei è svelta a scacciarle con il dorso della mano.
«Lo so» annuisco piano. «Ma io non posso forzare qualcuno che non vuole condividere il suo passato. E non posso perdere tempo appresso a qualcuno che non ha il minimo interesse per me al di fuori delle lenzuola. Mi spiace tanto, Vivi» mormoro.
«Non mollare la presa su di lui, per favore. Dagli una chance» mi supplica.
«Cosa credi che abbia fatto per tutto questo tempo? Ho capito che c'era qualcosa in più, qualcosa che stava iniziando a sbocciare nello stesso momento in cui l'ho visto interagire con Aurora.»
«Dal compleanno delle gemelle? Ma è stato ad ottobre... non lo conoscevi da molto» sbatte le palpebre, basita dalle mie parole.
«Non lo avevo nemmeno baciato, Vivienne. Eppure... all'inizio gli ho detto che non ero interessata al doppiogioco perché credevo che stesse con lei ma mi ha sempre detto che è la sua migliore amica, niente di più. Nonostante le sue parole, ho sempre provato questa sorta di... fastidio nel vederli insieme. Poi è successo tutto il resto e sono rimasta fregata.»
«Vieni qui» Vivienne mi attira in un abbraccio mentre rilascia un profondo respiro.
Mi stringo a lei nella speranza di ottenere un po' di calore, ma la verità è che continuo ad essere un ghiacciolo – già, esattamente come lui. 

𝐀𝐕𝐄𝐑𝐘 [𝐁𝐨𝐬𝐭𝐨𝐧 𝐋𝐞𝐠𝐚𝐜𝐲 𝐒𝐞𝐫𝐢𝐞𝐬 𝐕𝐨𝐥.𝟏]Where stories live. Discover now