Capitolo 11

77 6 1
                                    

Stamattina in ufficio c'è una gran confusione, tutti parlano del titolo in prima pagina e mi chiedono spiegazioni. Rispondo a tutti: «Ci sto lavorando, è tutto sotto controllo» senza dargli possibilità di fare altre domande. 

I genitori delle ragazze uccise sono in preda al panico e vogliono parlare con me, ma non posso confessargli che è una trappola per il killer. Chiedo al brigadiere all'ingresso di non far entrare nessuno. Famiglie, giornalisti, curiosi. Non voglio dover inventare scuse con nessuno, voglio parlare solo con la mia "complice", Ginevra Ferrari, che arriverà a breve.


Appoggio i gomiti davanti alla tastiera del mio computer e infilo le dita sotto gli occhiali per stropicciare gli occhi con un mezzo sbuffo, le riporto alla tastiera e apro la cartella con il caso del killer per rivedere alcuni dettagli. Spero di ottenere qualcosa intimidendo il pc con lo sguardo oppure sto elaborando le immagini che scorrono davanti ai miei occhi, sfruttando ogni mia dote di osservazione e di memoria. Sono stato dentro tutto il giorno, rintanato nell'ufficio a effettuare ricerche e a cercare di ordinare tutte le complessità dei casi di cui si compone l'intera faccenda: qualche ipotesi è venuta fuori, qualche idea è stata vagliata. Al momento sto effettuando delle ricerche su qualche caso che ha seguito il maresciallo De Lancia, per escludere che sia un rapimento di vendetta nei suoi confronti, sto cercando tutti i criminali che ha arrestato negli ultimi sei mesi per capire se ci sono validi moventi. Indosso gli occhiali, anche perché dopo una giornata così intensa, sono piuttosto stanco e lo è anche la mia vista. Ho davanti a me il portatile aperto su cui continuo a smanettare e prendo spesso appunti su dei fogli dove ho cercato di schematizzare le informazioni prese. 


Più di frequente, dopo tutte queste ore di lavoro, tolgo gli occhiali e strofino un po' gli occhi, sentendo quel subdolo mal di testa che sta lì in agguato e buttando fuori stancamente un po' d'aria. Sono distrutto da giornate pesanti, non ultima quella no-stop di ieri, da una notte piena di incubi e di certo non migliorata dal rapimento di Adele che mi ha reso soltanto furioso e insoddisfatto, stati d'animo che non dimostro all'esterno perché sono fatto così, ma che si concretizzano in cambiamenti pratici e sostanziali. Tipo starmene fuori, al balcone, per tutta la notte e assopendomi solo per qualche minuto a più riprese ma senza riuscire effettivamente a dormire. Sono stato semplicemente lì, a covare inevitabilmente in silenzio la frustrazione che va avanti da più di tre giorni, con tutti gli eventi che sembrano solo aggregarsi contro. E a pensare ovviamente al caso: di quello non posso fare a meno, neanche se mi concentrassi su altro. 


Giro lo sguardo sulla porta sentendo la voce di Ginevra che ridacchia con qualche brigadiere. Quando sento la porta aprirsi mi irrigidisco di colpo, come se ogni parte del mio corpo desideri che a entrare fosse Adele. Mi sollevo un po' sui gomiti fino a che Ginevra non appare nella stanza, la osservo ma solo brevemente, non sostengo il contatto visivo più di qualche secondo. «Ciao, accomodati» commento con un tono basso, pacato, abbastanza monotono ma immancabilmente affettuoso. Solo molto triste. Lei si siede, dedicandosi a mettere le gambe accavallate. «Ci siamo!» esordisce con un entusiasmo fastidioso. «Cosa?» chiedo quasi rassegnato.


«È arrivata una chiamata anonima in redazione, un uomo ha chiesto di parlare con me in merito all'articolo in prima pagina, mi chiamerà tra poco.» Il mio battito è accelerato adesso ma devo rimanere lucido. Digito velocemente l'interno del maresciallo di turno sul telefono fisso. «Maresciallo, registrate la telefonata in arrivo sul telefono della signorina Ferrari e localizzate da dove arriva. Veloci!» riaggancio e sorrido a Ginevra che ricambia quasi eccitata all'idea di essere un gancio per un serial killer.

La figlia del MarescialloWhere stories live. Discover now