Arcobaleno lunare

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È buffo vedere come una stessa frase, pronunciata in tempi diversi, possa avere nelle persone reazioni dif­ferenti: ho preso il covid.

Dirlo all'inizio della pandemia suona come una condanna, adesso si sta trasformando invece in una brutta storia superabile.

Ho preso il covid, ma ho imparato a sognare.

Quest'ultima parte lascia tutti indifferenti e inter­detti, eppure è ciò che ha cambiato la mia vita.

Dei giorni della quarantena ricordo pochissimo: le stesse azioni quotidiane si ripetevano fino alla nau­sea in un vortice di banalità e insofferenza nella qua­le naufragavo. Ero stanca, spossata, ammalata. Una parte di me si reputava fortunata rispetto a chi non era riuscito a sopravvivere, ma l'altra pativa tremen­damente la noia e la lontananza dagli altri, dalla vita, dalle amiche. Le videochiamate, nonostante riuscissero a strap­parmi dal torpore della monotonia, erano scialbe e fal­se nella loro virtualità. Non sopportavo più quel tempo congelato, vole­vo tornare a qualcosa di reale, ma soprattutto volevo uscire e respirare aria nuova...

Scrollare Instagram non ha più lo stesso effetto, prima era una bella finestra sul mio mondo: foto di viaggi, di vacanze, di sport, di serate passate insieme a bere e a divertirsi. Adesso solo meme e video di can­zoni dal balcone... Ah, come non citare "ce la faremo" gridato a squarciagola.

#landscapes

Lo digito sulla tastiera sperando di trovare qual­che immagine che possa farmi evadere dalla stanza e strapparmi dal mio letto sgualcito e disseminato di fazzoletti, termometri e tachipirine. Ancora non riesco a capire come possa averlo preso...

Ripenso ai vari momenti che, secondo me, potreb­bero essere stati la causa di tutto, ma sono sempre sta­ta attenta, o almeno credo.

Con le poche forze che ho, scalpito all'interno del mio rifugio divenuto la mia prigione e faccio scorrere le foto che appaiono sul display: i coralli delle Maldi­ve, le rocce del Gran Canyon, i tramonti sui viali, le baite di montagna. Immagini piene di colore, ma che a me paiono tutte un'infinita scala di grigi.

Mia madre bussa alla porta e istintivamente na­scondo il telefono sotto al letto, come se fosse un og­getto proibito. Mi ha portato la cena e mi chiede come mi senta: dirle che sto meglio, anche se con alcune li­nee di febbre, non la rassicura.

Nonostante l'imbarazzo che mi provoca, vederla dal fondo del nostro piccolo corridoio mentre sollevo il vassoio con un po' di minestra e verdure mi scalda il cuore. Con il suo sguardo mi scansiona tutta in cerca della verità, sono sicura sappia anche cosa provi real­mente dentro. Il suo sorriso è malinconico, si vede lontano un mi­glio vorrebbe fare di più. Lo leggo nei suoi occhi il vo­lersi sacrificare al posto mio e il voler trascorrere più tempo con me per non lasciarmi da sola. Ogni tanto parliamo da dietro la porta della stanza, ma dà più sollievo a lei che a me.

Continuo a sentire il bisogno di qualcosa che riesca a scuotermi nel profondo, e l'affetto della famiglia non è più stato in grado di completarmi già da un po'. Vorrei molte cose, ma al momento devo rassegnar­mi a fissare i muri della mia camera piena di libri letti una sola volta e foto di momenti spensierati con le mie amiche: la vacanza all'estero, la setti­mana bianca, quella serata al pub.

Mi risistemo sul letto e accomodo il vassoio sulle gambe, trascino la sedia della scrivania verso di me e ci posiziono il portatile per continuare a vedere una serie iniziata con la speranza di dare un senso alle giornate vuote.

Aspetto che la minestra si raffreddi un poco - non mi piace bollente - e riprendo il cellulare con lo scopo di chiudere l'app, ma rimango affascinata da un'im­magine sconosciuta. È surreale per quanto è bella.

Arcobaleno lunareWhere stories live. Discover now