An ice-white m(adn)ess

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A ogni risveglio, quando apre gli occhi e fissa il soffitto, nella mente di Yuri Plisetsky esiste solo una fluida, bianca inconsapevolezza. La coscienza ha bisogno di tempo per rimettere insieme i pezzi e riconoscere una stanza d'albergo, la poltrona di un aereo, la casa di Madame Baranovskaya, lo spogliatoio anonimo di chissà quale stadio del ghiaccio, da qualche parte nel mondo.
Per primi, si risvegliano i muscoli, con i loro continui, opprimenti bisogni. Muscoli che danno sostanza a un corpo d'atleta, spingendosi oltre i propri limiti e che però pretendono in cambio continue attenzioni: riposo, energia, potassio, elettroliti. Chiedono, chiedono di continuo e il lavoro di Yuri è comprenderne il linguaggio e dargli quello che vogliono, perché un corpo che vive volando sul ghiaccio, il meno naturale, il più infido degli elementi, non può concedersi imperfezioni.
Quando si risvegliano, i muscoli le loro esigenze le gridano, sotto forma di un dolore sordo e continuo con piccoli strappi acuti che si irradiano nei nervi fino alla punta delle dita dei piedi e delle mani. Fitte che disegnano la forma esatta del legamento che si è sovraccaricato nell'ultimo atterraggio da un quadruplo Lutz, dell'eccesso di torsione nella spalla destra, dell'accenno di pubalgia latente, dell'acido lattico accumulato nel sonno, anch'esso bianco, come il soffitto, come quel dolore, come il ghiaccio.

La prima volta che Yuri Plisetsky ha incontrato il ghiaccio aveva tre anni. Di quel giorno ricorda poco: alberi enormi con scure braccia spezzate e il senso di distacco improvviso dalla mano del nonno, così forte e calda che il tepore passava attraverso due strati di guanti. Ma qualcosa lo chiamava e Yuri gli è andato incontro.
Era un bagliore scintillante, dal basso, come se una nevicata avesse catturato il sole e poi lo avesse fatto a pezzettini minuscoli, schizzi di luce contro gli occhi.
Yuri è scappato via dal nonno perché doveva proprio raggiungerlo, quel sole in frantumi intrappolato nel pavimento, e doveva appoggiarci su le mani, la bocca e la fronte per sentire se era liscio e se bruciava ancora.
Bruciava tantissimo. Ma di freddo, che forse è quello che succede ai soli quando incontrano la neve.
Yuri quel giorno non aveva i pattini, è scivolato disteso bocconi e la sua lingua si è appiccicata alla pista del Gorky Park. Il nonno gli è corso dietro, lo ha tirato su e poi lo ha sculacciato e per pranzo non gli ha preparato i pirozhki. E la mamma, la sera, non ha telefonato, ma Yuri pensava ancora al ghiaccio e, per una volta, non ha pianto.
Tutto questo, Yuri Plisetsky non se lo ricorda più.
Si ricorda di aver incontrato il ghiaccio da bambino, di averlo sentito addosso, e dentro, e contro. E se chiude gli occhi può rievocare la sensazione esatta di quello scivolarci sopra con tutto il corpo, fluttuando. E l'idea nuova, bianca, senza contorni nella sua mente infantile, che in quello scivolare si nascondesse qualcosa di profondo, terrificante e bellissimo. E molto, davvero molto importante.

Adesso che Yuri ha quindici anni e una medaglia d'oro del Gran Prix sotto al cuscino (per poterla tenere stretta tra le dita mentre dorme), sta ancora scivolando. E l'idea nuova non è più tanto nuova, è diventata usata, comoda, come una tuta da allenamento, leggermente sformata, bianca ma un po' più sporca, un po' più vera.
E' ancora bellissima. Fa ancora paura.
E' stata promossa da idea a motivazione, ragione causale.
Nelle interviste qualche volta glielo chiedono: perché hai scelto proprio il ghiaccio?
Yuri dà sempre la stessa risposta spavalda: Il ghiaccio ha scelto me.
E mente ogni volta.

Ha impiegato degli anni a capirlo e altri anni a dare un nome a ciò che aveva capito.
E per un po' è rimasto a contemplare la verità e l'ha nascosta all'interno del ghiaccio, in un rifugio tiepido dove l'acqua accoglie ogni cosa e il gelo la custodisce. Come la vita nei laghi e nei fiumi d'inverno, giù, nel profondo, al riparo del calore intrappolato sotto tutto quel bianco.
Il ghiaccio salva. Il ghiaccio uccide. Il ghiaccio è neutrale, come tutte le divinità della natura: assiste impassibile al trionfo e alla sconfitta e li contiene entrambi. Se lo ascolti, te ne sussurra i misteri, quando cadi per la millesima volta e ti trovi lì, con il morale (e il culo) per terra, a cercare di uccidere la pista a forza di pugni. Il ghiaccio ride di te.

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