Tramonto e notte di Carlo

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La luce ingannava i grandi occhi dell'uomo che ostinatamente era intento a fissarla. Li assaporava, li assorbiva, li agguantava con vere promesse di sparse foglie e soffici nuvole e li inghiottiva, i belli e grandi occhi del bracciante. Erano affermazioni d'amore attraente, attenzioni di seducente mano, le cui affusolate dita si preoccupavano di chiamare con sé pur il più ostile degli uomini. Avido, è il tramonto, e bellissimo.
Le iridi bruciavano dal quieto dolore del sole che cosciente svaniva oltre le lontane colline, ed esso pareva un uomo grande, immenso, scavalcando la terra per gettarsi nell'oblio della morte. Un lungo cappello di malinconica oscurità serrava il taglio acuto dello sguardo del sole, mormorando parole cortesi. Sarebbe tornato il giorno successivo, e quello ancora successivo, e ancora e ancora, finché gli arti non avranno ceduto dal nervoso dolore della morte. Pizzica, dolcemente e con cattiveria le corde del cuore, e della mente, le tagliuzza e le mordicchia, come un topo infestante delle cantine. In quel momento, mentre le nuvole del pallido rosa che tanto adorava si adornavano dell'ultimo oro, sentì sospendersi, e si sentì cedere. Ricordò di aver atteso qualche attimo ancora, e serrando le palpebre, desiderando ardentemente la pace, sospirò. Fu un sentito, profondo respiro, che placò fin alla notte la solitudine e la sofferenza di Carlo. Le gambe, magre e colme di folle stanchezza erano ritte, senza mostrar cedimento alcuno, e come il contadino, volevano scappare da quel luogo che di poetico portava solo la speranza del vento, e di esser travolti e sospinti giù dalle montagne. Ma Carlo no, Carlo non si muoveva. Immobile. Come una statua fredda e pallida, limpida e sofferta e in piedi. Le dita affilate esitavano, si stringevano tra loro, ciascuna nella propria mano, in piccoli tocchi nervosi, annoiati, gesti dalla noia e nient'altro. Stringevano i polsini della camicia sfilacciata, senza che Carlo lo avesse voluto davvero, ed i suoi occhi vispi accompagnavano le dita nel viaggio verso la compagnia dei movimenti, e solo lor due si erano impegnati per proseguire. Erano ancora persi nel tramonto e negli alberi dalle foglie splendenti più d'un raggio di sole, pur essendoci le stelle e nessuna luna.
La strada dava su uno strapiombo ed alcune case con grandi giardini, in pendenza, ed era barricata da una ringhiera metallica; Carlo era nell'infimo spazio dove gli alberi non coprono per poco il sole, tra le grandi betulle e una villa modesta, di cui vedeva solamente le tegole rosse del tetto spiovente. Aveva sempre solamente visto le tegole rosse del tetto spiovente, mai possedé una curiosità tale da sbirciare oltre il grande cancello bianco, ricoperto di foglie secche e croste nella vernice. Pensava però dovessero dipingere nuovamente.
Carlo sospirò ancora, e le mani smisero di muoversi, come se non si fossero mai mosse. Come se fossero appena nate, coperte di sangue, uscite dai suoi polsi monchi e non sapessero ancora come connettersi con la mente dell'uomo. Guardò l'orologio precisamente, e sospirò. Rimase a fissarlo più di un minuto, ed i grandi occhi parevan increduli davanti a due lancette e allo scorrere inevitabile e lungo del tempo. Era quasi sorpreso. Quei sospiri gli fecero venir la voglia di singhiozzare, ma Carlo non piangeva, e non pianse nemmeno quella volta. Scrutò invece il vicino orizzonte, lo scomparso sole e le presenti stelle e l'ultime pompose nuvole in quel cielo d'un viola offeso e gettato a terra. Lentamente, arrivava la notte, ed egli sentì fame. Sospirò ancora, e si chiese perché non poteva essere come gli astri, così grandi, infiniti, possenti, profondi e immorali e insensibili. Si chiese perché non poteva essere insensibile. O grande. O addirittura infinito. Carlo era nato per morire, come tutti gli esseri umani. Dal più banale al più normale, dagli antipodi alla coincidenza totale. Anche Carlo sarebbe morto e lasciato decomporre sul letto di casa sua, perché nessuno sarebbe venuto con il vestito della domenica, un sapone al gelsomino e una bara, o un fiammifero. Carlo era solo, e per questo si sentiva solo.
Carlo si chiese anche per quale ragione fosse solo. Se lo chiese molte, moltissime volte, ma non seppe trovar soluzione al suo dramma. C'è chi rimane solo e chi vien amato, si diceva, si raccontava. Egli nemmeno si amava. Egli amava il suo bosco, e la sua casa, e le lenzuola ricamate della defunta bisnonna, le pentole, le nuvole, i cinghiali e le piantagioni di pomodori nei giardini. Carlo amava il mondo in cui viveva, lo amava davvero, ma quel mondo sembrava non amare Carlo, tentando di trascinarlo in un oblio di dimenticanze e infinite giornate trascorse ad annoiarsi.
Amava le riflessioni senza una connessione logica con la sua vita, o con la narrazione della sua storia. Le amava proprio perché sconnesse, e improponibili. Sospirò, pensando questo, mentre gli occhi vuoti voltavano la testa verso la strada di casa, pochi metri dietro lo strapiombo. Fece una giravolta, e subito dopo un gran sorrisone. Amava anche sorridere, per quanto potesse odiarlo.
Arrivò davanti al suo cancello bianco, che aprì rigirandosi le chiavi tra le mani confusamente. Inciampò poi su di una mattonella del vialetto, e il mazzo cadde. Sospirò, lo raccolse, e a grandi falcate giunse di fronte alla porta.
Lo accolse il silenzio. Tin tin, fecero le chiavi sul tavolo dell'ingresso. Levò gli scarponi e prese le pantofole, le mise e si diresse verso la cucina, dove altro, ancora silenzio lo accolse in un abbraccio fraterno, consigliando di versare acqua in una teiera per prepararsi una tisana. Carlo, in quel momento, si considerò uno degli uomini più normali che conosceva, e ne conosceva pochi, tranne se stesso. O forse, solo se stesso.
Una cosa che al nostro bracciante sempre affascinava era sedersi sulla seggiola esterna, in veranda, verso il bosco, e pensare che qualcuno sarebbe venuto a salvarlo, o a lasciarlo morire nel buio del bosco. Si sedette quindi lì con la sua tisana, al fresco, a pensare. Gli alberi non si distinguevano dal buio della notte, e qualche grillo, qualche passo nell'ultima estate faceva muovere con interesse i suoi occhi, che da destra passavano a sinistra, e da sinistra a destra, e poi su, quando vide un'ombra nel cielo buio, e giù, quando vide un enorme gatto seduto comodamente davanti al cancello bianco della sua dimora. Era accovacciato, ricoperto di un'ingente quantità di pelo, che nascondeva anche le sue orecchie. Dall'oscurità pareva di un bianco quasi sporco, che si distaccava dal nulla dietro la sua gonfia coda. Doveva essere piuttosto anziano, e sonnecchiava. Così parve a Carlo, perché il gatto non si muoveva.
Si alzò dalla sua sedia bianca, barcollando leggermente per la stanchezza che improvvisamente sembrava mordergli i muscoli delle caviglie, poggiando la tazza sul tavolino. Passo dopo passo, con l'andatura di uno spirito, giunse fino al cancello, e si accovacciò. Non era la prima volta che Carlo trovava un gatto nei pressi di casa sua, erano quasi tutti randagi, ma di solito non destavano il suo interesse eccessivamente, per quanto fossero una compagnia ammirabile.
Un leggero spiffero di vento freddo tradì la notte estiva, e le braccia scoperte del bracciante si riempirono di piccoli brividi. Sospirò, ancora, con una divertente rassegnazione ed una scintilla nei grandi occhi terra, estrasse le chiavi e aprì il cancello. Tornò poi al suo posto, con la medesima andatura, e bevve ancora la sua tisana: era ancora calda, e bruciò la sua gola con il piacere di chi beve un sorso d'acqua dopo un lungo pellegrinaggio nel deserto. Non sperò che il gatto entrasse. In verità, nemmeno il povero Carlo sapeva il motivo di quell'atto di compassione, se così è possibile definirla. Il motivo per il quale aveva girato la chiave nella serratura imboscata in profondità della notte gli era indefinito, improbabile, ma forse, non tutte le azioni di un uomo solo vengon svolte senza il cuore di chi prova solitudine. Per questo, infatti, non seppe nemmeno riconoscere il motivo per il quale quel grande e anziano gatto era entrato, sbattendo il cancelletto, e con andatura ondulante e maldestra era ricaduto morbidamente vicino al divano all'ingresso della casa di Carlo, avendo trovato la porta aperta. Ora, sonnecchiava di nuovo. L'uomo si voltò con il viso contorto dallo stupore, anche se non eccessivamente. Rimase a guardare la bestia che respirava con beatitudine per quelli che per lui furono minuti interminabili, durante i quali non riusciva a distogliere lo sguardo stanco dal muso del gatto. La stanchezza sembrò svanita, per un momento, e non ci fu un momento sdoppiante come quello, per quanto desiderò essere quel grande ed anziano animale dall'aspetto saggio e solenne, che probabilmente aveva visto in Carlo solo una speranza di raccogliere qualche alimento e di riscaldarsi con un caldo camino. Ma a lui non interessava, principalmente la vita da gatto aveva qualcosa che lo attirava all'interno di casa, vicino al ronfare poco distante, a stendersi sul divano e non alzarsi mai più. Morire per resuscitare nel gatto.
Prese la tazza e la poggiò sul tavolo interno alla casa, spense la candela fuori e richiuse la porta dietro di sé con un rumore sordo. Sospirò, sentendosi avvolto dal calore di ciò che poteva chiamare abitazione, poi si dirisse verso la stanza da letto e senza nemmeno cambiarsi, si stese sul letto, senza nemmeno disfare le trapunte. Chiuse gli occhi, e sognò ancora di essere un gatto.

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⏰ Last updated: Mar 13, 2023 ⏰

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La solitudine di CarloWhere stories live. Discover now