III

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(Aurelion) 

Forgiare armi era un'arte e mio zio Falastor era un artista. Era il miglior fabbro del regno della Luce e i suoi servigi erano ben visti a corte, riforniva gran parte dell'esercito e aveva moltissimi ragazzi che lavoravano per lui. Spesso chi falliva l'addestramento per diventare cavaliere ripiegava su mansioni simili per sentirsi utile e mio zio era felice di insegnare a chiunque avesse pazienza e voglia.

La prima cosa da sapere per forgiare una spada era che il processo fosse pericoloso e davvero lungo. Era necessario scaldare la fornace e tenerla sempre viva con carbone e legno, sprigionando molti fumi dannosi. Avevo visto il procedimento almeno un milione di volte e l'abilità di mio zio superava quella di tutti gli altri nella forgia.

Si scaldava il metallo fino a renderlo sufficientemente malleabile per la forgiatura e per togliergli le impurità, in quel modo diventava molto più resistente. Quando il materiale cambiava colore e si trasformava in un'escrescenza di un giallo brillante era il momento di passare alle maniere forti, metterlo su un incudine per curvarlo e cesellarlo. Ad ogni ora del giorno si potevano sentire il "cling clang" dei martelli, io mi occupavo principalmente della limatura e del tempramento.

Io e Bithi, uno dei miei amici fabbri, stavamo limando le ultime lame della giornata. Era un ragazzo simpatico ed era l'unico a cui piacessero le mie battute o indovinelli. Per la maggiore non ci capiva niente perché era Bithi, però la sua compagnia era ottima – almeno quando andavamo a farci i funghetti nei boschi.

Stavo togliendo la miscela di argilla, erba e piume dalla spada quando lui scoppiò a ridere in quella sua risata fragorosa, un botto improvviso e quasi la pietra per le limature gli cadde dalle mani.

Falastor uscì dalla fucina e ci lanciò un'occhiata lunga. Aveva il volto sporco di nero ed era madido di sudore, con la luce rossa del tramonto la sua faccia aveva preso un'aria lugubre e stanca. Gran parte dei suoi aiutanti erano andati a casa o stavano finendo di riordinare i propri arnesi.

«Voi due sembrate andare molto d'accordo» giudicò.

Bithi non colse l'ironia. «Raccontagli la battuta! Raccontagli la battuta!» mi implorò, soffocando una risatina.

«Sai come si chiama un irgvin senza zampe?» esclamai. Falastor sospirò e scosse la testa. «Puoi chiamarla come vuoi, tanto è senza zampe e non può venire.»

Bithi rise di nuovo, premendosi una mano sulla pancia, mentre mio zio non mosse un muscolo. Quel genere di ironia non era di suo gradimento, oppure non capiva le mie battute e basta. Ero convinta di essere di ottima compagnia.

Falastor esaminò la limatura delle nostre lame e ci passò un dito sopra, sentendole lisce e senza imperfezioni. Sarebbe bastato creare un'impugnatura solida, eppure la mia bellissima opera avrebbe dovuto ripassare altre fasi di raffreddamento poiché a quello stadio era troppo fragile per andare nelle mani di un soldato esperto.

Era un lavoro che non aveva mai fine, il nostro.

«Impugnatura di pelle» dissi, muovendo le mani. «L'ho messa nell'acqua e olio.»

«La prossima volta aggiungici dell'urina, l'ammoniaca favorisce la nitrurazione, in questo modo l'acciaio si corrode meno» consigliò.

«È il tuo momento di brillare, Bithi, fai pipì nel secchio!»

Mio zio mosse il mento e l'Elfo afferrò al volo il concetto di togliersi di mezzo. Mi salutò e mi lasciò mettere a posto la mola. Lasciavamo gli strumenti più ingombranti e pesanti fuori la fucina, all'aperto dietro il grosso cortile sul retro. Lavorare all'aria aperta in primavera era davvero bello, in inverno la molatura diventa stressante, tra neve, vento e ghiaccio. Nove volte su dieci ti beccavi un raffreddore.

The king's birdWhere stories live. Discover now