8.B

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Non riuscii a dormire quella notte. Di base passai otto ore a fissare il soffitto nel buio, senza riuscire vivamente a guardare qualcosa di preciso, ma senza nemmeno essere in grado di smettere. Sentivo gli occhi secchi, volevo piangere e non ci riuscivo, volevo buttare fuori il dolore che avevo provato quella sera, volevo sfogarmi, far uscire tutti i sentimenti che non avevo più voglia di trattenere, e anche scaricare i miei condotti lacrimali, così da riuscire a stancarli e, di conseguenza, a staccare la testa e trovarmi nel mondo dei sogni dove, forse, sarei evaso dal casino che mi attorcigliava il cervello.

La mattina, quando mi resi conto che fosse un orario normale, passai minuti interi seduto sul bordo del letto con le iridi che bruciavano e la bocca secca come il deserto. Volevo alzarmi, volevo abbandonare la mia frustrazione su quel materasso, ma non ce la facevo.

Ero stanco come non lo ero mai stato, e non solo a causa di quella notte insonne, ma anche per colpa della difficoltà nell'accettare un po' di affetto che bramavo ormai così tanto senza nemmeno volerlo in modo conscio.

Io ero sicuro che Mattia mi avrebbe abbandonato, a un certo punto, come alla fine mi meritavo, ne ero sicuro come lo ero di poche altre cose. Ma, dopo averci riflettuto per ore e ore, mi ero quasi deciso a vivermela finché sarebbe durata. Avrei cercato di capire se anche i suoi sentimenti fossero stati veri e poi avrei agito di conseguenza.

Lui provava lo stesso? Allora mi sarei buttato.

Lui non provava lo stesso? Allora avrei continuato quello strano rapporto in silenzio, subendo sofferenza ma consolandomi toccando la sua pelle morbida.

Mi alzai solo perché necessitavo di un'altra doccia, stavolta più accurata. Volevo lavarmi via la sera prima il più possibile, Alex non esisteva più, e sciacquarlo via con il getto d'acqua bollente e grattarlo via con la spugna mi sembrava un'ottima soluzione. Via la sofferenza inutile, se fossi stato destinato a starci male, d'ora in poi sarebbe stato così solo per le persone per cui ne sarebbe valsa la pena.

E Mattia ne valeva la pena, sempre.

Finii in cucina all'alba e notai che fosse ancora più deserta del solito. Sarà stata la pioggerellina che cadeva e che creava una luce surreale e fredda, l'aria fresca che entrava da una finestrella semi aperta con la ribalta, oppure, cosa molto probabile, la stanza mi sembrava deserta perché non c'era l'unica persona che avrei voluto vedervici.

Mi sedetti lasciandomi andare a peso morto sulla sedia dove di solito si sedeva lui, e quasi mi immaginai di averlo di fronte, potergli toccare la mano di soppiatto, sorridergli perché non avrei saputo trattenere la gioia nel vedere i suoi ricciolini biondi spettinati, e stuzzicarlo improvvisando qualche stupido flirt che avrebbe finito per mandarmi fuori di testa. Magari gli avrei accarezzato piano le gambe con la punta delle dita dei piedi, o piuttosto avrei cercato di convincerlo di sedersi accanto a me per baciargli piano il collo solo per il gusto di vedere i suoi brividi e per illudermi che quello che avrei provato io fosse ricambiato.

Dio mio, solo a immaginare cosa avrei potuto fare ero diventato duro ed era una cosa che non mi faceva per niente onore. Ero uno sciocco, innamorato come un ragazzino ed eccitato come un adolescente, e non mi era mai successo.

Sbuffai e mi sistemai nervoso i pantaloncini sul cavallo, in modo da non farmi stringere troppo. Cercai di smettere di darmi del cretino per ciò che provavo. Mi dissi infinite volte che, forse, apprezzare qualcuno voleva dire proprio questo: essere vulnerabili, con la testa tra le nuvole, il cuore in corsa e le gambe di gelatina. Odiavo quella sensazione.

L'ironia nella faccenda? Non mi ero mai sentito così vivo.

Rischiavo di farmi strappare i sentimenti, di farmi uccidere le farfalle nello stomaco, di soffrire per pesi, anni, forse una vita, rischiavo una delusione, una botta in testa e una pubblica umiliazione. Eppure avrei rischiato quello e anche di più per sentirmi sempre così.

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