Liliana Segre

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Come ogni anno ci ricorda il telegiornale, il 27 gennaio è la giornata della Memoria, in ricordo delle numerosissime vittime che sono state perseguitate da Hitler prima e durante la seconda guerra mondiale, perché erano nate ebree, quindi diversi dalla razza bianca. Molto spesso questo evento lo chiamiamo "Olocausto", cosa che non è del tutto sbagliata, ma sta ad indicare un sacrificio a Dio in cui la vittima da offrire veniva bruciata sull'altare; la vera parola che bisognerebbe usare è "Shoah", in quanto, questa semplice parola di cinque lettere contiene in sé un significato molto più profondo e specifico per ciò che è avvenuto. In ebraico vuol dire "tempesta devastante" o "catastrofe", e proprio queste due parole riportano alla mente l'immagine di uno sterminio molto importante, del quale è impossibile dimenticarsi. In quegli anni di paura, di violenza, di cercare di scampare al peggio, e a quei camion nazisti in cui ti ammassavano e ti portavano via dalla tua vita, un'unica certezza c'era, cosa che agli ebrei era sconosciuta, il treno nascosto del Binario 21. L'Italia era partecipe di quella catastrofe che portava alla morte decine di migliaia di persone, tra cui anche bambini. Tra questi vi era una ragazza, che a soli 13 anni era stata incarcerata nella sua città natale, Milano, per poi essere deportata ad Auschwitz, lei è Liliana Segre.


Torniamo in dietro nel tempo, ad una realtà a noi quasi sconosciuta, solamente raccontata da libri e documentari, nel 1930, specificatamente il 10 settembre, ecco, questa è la data della sua nascita, un momento che per i suoi genitori fu stupendo, e che portò gioia a tutti. Quando non aveva neanche un anno, iniziarono i problemi, la sua vita sarebbe stata segnata molto, sua madre morì. Il padre si rimboccò le maniche e le fece anche da madre per quanto possibile, era la sua principessa. All'età di otto anni, iniziarono a pesare sulle sue spalle le leggi razziali, e fu espulsa dalla scuola. Nessuno dei suoi compagni si fece la domanda, dov'è finita la Segre? Invece lei doveva nascondersi da chi la reputava ebrea, poiché non lo era del tutto, ne era solo ascendente. Per molti anni riuscirono a continuare per quanto possibile la loro vita, all'oscuro di ciò che avveniva nella loro stessa città, usando nomi falsi, e cercando di rifugiarsi in Svizzera, ma andò tutto a rotoli, quando le autorità del paese elvetico li respinsero. Il giorno dopo, sarebbe iniziato il periodo più oscuro della sua vita. L'11 settembre del 1943, a soli 13 anni fu arrestata, insieme al padre, e incarcerata a Varese per sei giorni, trasferita poi a Como, ed infine a San Vittore a Milano, dove si ricongiunse al padre e rimase rinchiusa per quaranta giorni. Il 30 gennaio del 1944 conobbe il lato oscuro della sua città; fu ammassata su un camion nazista e portata in luogo scuro, sotto la vera stazione, dove i camion arrivavano vicinissimi ai vagoni merci, nei quali potevano trasportare anche animali, e come fossero bestie venivano spintonate, frustate e rinchiuse in quei vagoni, all'incirca in 60/70 persone, c'è chi dice anche di più. I vagoni carichi di persone, con tanto di divieto di trasportarle scritto sulle pareti, venivano innalzati fino alla stazione, attaccati al treno e partivano. Loro erano all'oscuro della destinazione, ma quel treno ne aveva solo una, i campi di concentramento di Auschwitz, che raggiunse dopo sette lunghi giorni; durante il viaggio, appena iniziato, c'era chi piangeva, chi pregava, chi diceva di voler vivere, ma tutto questo dopo un po' si fermò. Non c'era via di scampo, poteva solo stringersi tra le braccia di suo padre, in attesa di assistere a ciò che sarebbe avvenuto. All'arrivo fu praticamente strappata da quelle braccia che la volevano proteggere da ogni cosa, che le trasmettevano amore, ma ai soldati non interessava. Liliana e il padre vennero separati per sempre, poiché il 27 aprile dello stesso anno, lui morì. Poco dopo anche i nonni paterni furono arrestati, e furono bruciati nelle camere a gas appena scesi dal treno, poiché bambini piccoli e anziani non andavano bene per i lavori forzati. La cosa che più rabbrividisce è che appena arrivavano venivano denudati dei loro abiti, gli venivano rasati tutti i capelli, e tatuato il numero che da quel giorno sarebbe stato il loro nome. Quello di Liliana è 75190, stampato sul suo braccio sinistro da un inchiostro indelebile, che le ricorderà per sempre quel momento. In quegli anni della sua vita sperava ogni giorno di continuare a vivere, per poter poi tornare alla sua libertà, ma ogni giorno era più duro, il freddo, lo scarso nutrimento, la mancanza di igiene, cosa che fece morire molti detenuti; inoltre dovette affrontare anche altre tre selezioni, per vedere se era idonea a lavorare, e in una di queste perse un'amica. Per lei il dolore aumentava, e quando l'offensiva russa cercò di porre fine al massacro, i tedeschi ci trasferirono. Nel gennaio 1945 fu costretta a subire la marcia della morte, ossia camminare nella neve dopo mesi, se non anni, di duro lavoro, violenze e privazioni, per arrivare alla stazione ferroviaria che l'avrebbe portata, all'interno di vagoni merci scoperti, in Germania. Furono giorni molto duri, al freddo, alle intemperie, senza cibo e acqua, e una volta arrivati a destinazione ripartirono con la marcia fino al nuovo campo Malchow, un sottocampo del campo di concentramento di Ravensbrück. Qui ci restò per pochi mesi, poiché nel maggio del 1945 l'Armata Rossa irruppe in questi campi, mettendo fine al massacro che i tedeschi stavano facendo. Dei 776 bambini sotto i 14 anni, ne uscirono salvi solo 25, i sopravvissuti, tra cui Liliana. Al rientro nell'Italia liberata, le sfide non erano cessate, aveva perso suoi padre, i suoi nonni paterni, e gli unici che gli erano rimasti, ossia i nonni materni, la presero a vivere con loro, che si erano salvati perché di origini marchigiane; riprese le redini della sua vita, conobbe l'uomo con cui si sposò e costruì la sua famiglia, ma nell'ombra quello che aveva vissuto rimaneva vivo in lei. Come sopravvissuta non era in grado di raccontare il male che le era stato fatto, poiché per i suoi parenti era difficile convivere con un "animale ferito" come si definiva, quindi imparò ben presto a tenere per sé quei tragici ricordi, perché il mondo se ne stava dimenticando in fretta, e lei doveva adeguarsi e ricominciare. Ma il ricordo dell'atrocità che era stata commessa, non poteva essere dimenticato, e nel 1977 iniziò ad apparire in documentari, libri, interviste, era diventata una testimone sopravvissuta ad Auschwitz. Però tutto questo scatenò anche altri problemi, ossia minacce di morte che le arrivavano anonime, anche più di 200 al giorno. Cercò di stare attenta, ma voleva raccontare al mondo ciò che per anni aveva celato dentro sé stessa, far capire ciò di cui l'uomo è capace, per lei non è stato facile, per chi la ascolta è difficile capire a pieno ciò che ha provato sulla sua pelle, le percosse, le parole, e tutto ciò che ha subito per quasi due anni, ma non impossibile. La sua storia, il modo in cui è riuscita a risollevarsi ed andare avanti, per poi tornare a quei ricordi dolorosi per il bene del prossimo, per far capire ciò che nessun essere umano dovrebbe mai provare, è la dimostrazione di una donna forte, determinata, e che di fronte alle difficoltà ha reagito, anche se non capita. Nel 2018, anno in cui ricadeva l'anniversario delle leggi razziali fasciste, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, la nomina senatrice a vita, per aver donato alla Patria una testimonianza così dettagliata su quello che furono i campi di sterminio. Ma questo non è ciò per cui io, come persona, mi sono legata molto a questa figura femminile, la vera essenza che ha fatto nascere quel qualcosa di così profondo in me, è stata la sua definizione di INDIFFERENZA:


"L'indifferenza racchiude la chiave per comprendere la ragione del male, perché quando credi che una cosa non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c'è limite all'orrore. L'indifferente è complice. Complice dei misfatti peggiori."


È divenuta la sua definizione d'autore, ed è stata inserita nel vocabolario Zingarelli. Questa è la motivazione, l'indifferenza per noi non è questo, è la mancanza di partecipazione o d'interesse, invece per lei ha un significato molto importante, che nascosto dietro quelle parole, che possono sembra dure, ti fanno provare ciò che lei ha vissuto, quello che i suoi occhi hanno visto, ovvero persone che difronte a quell'accaduto non hanno fatto una piega; quindi anche loro sono state complici di ciò che è avvenuto. Però una domanda mi sorge: chi provava a lottare per quelle persone, che fine faceva? Ebbene, quelle persone sono morte, perché si ribellavano ai tedeschi. Dopo la guerra gli fu riconosciuto il coraggio e il rischio di mettere a repentaglio la propria vita ed è stato assegnato a loro il nome di "Giusti". A volte lottare richiede grande coraggio, salvare i propri ideali non è facile, soprattutto se quando ci provi chi ti è vicino non la pensa nel tuo stesso modo. Quelle persone hanno provato a fare qualcosa, ma erano poche in confronto a chi era il loro nemico, e sono morte, consapevoli però di essere nel giusto. Questa giornata richiede veramente molta riflessione, che non sta nel guardare un film sull'argomento o un documentario, ma collegarsi con il nostro io interiore e capire fino infondo quello di cui l'umanità è capace, per evitare che in futuro cose del genere ricapitino.



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⏰ Ultimo aggiornamento: Dec 24, 2023 ⏰

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