Champagne Lovers

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Quella sera, la casa doveva sfoggiare irrimediabilmente le sue minuzie auree.

Le lumiere in cristallo soffiato, infisse al soffitto delle vaste stanze, erano state terse. Gli angoli dei tappeti vellutati lisciati sul pavimento, e le frange cucite ai bordi ben allineate l’una di fianco all’altra, in maniera impeccabile. Le superficie vetrate erano più lucenti del solito. Le finestre riflettevano limpidamente la figura di chiunque vi torreggiasse dinanzi – spasimante dell’incantevole panorama di cui decantava quella sontuosa villa, oppure agognante di vedere ancora una volta il proprio abito privo di pliche.

All’esterno, invece, le stelle traforavano l’oscurità che a poco a poco cominciava ad inondare le nuance del cielo, aranciate e sui toni del rossastro, sporcate da uno schizzo di rosa che inequivocabilmente aveva carezzato quella tela intoccabile.
La riva del mare era canuta, spumosa di basse onde scagliatesi contro la sabbia guazza e fresca d’umidità; segnata da figure luminose che fiocamente filavano attraverso le grandi finestre spalancate, prive di velari, al piano terreno.
Non si scorgeva traccia vivida della luna: si nascondeva dietro le immense nubi grigiastre agghindanti lo sfondo del dipinto empireo che macchiava la volta celeste, fuggiva dagli occhi di chiunque. Non era piena, tuttavia sembrava sazia, esausta dei segreti mortali che avevano intasato i suoi profondi crateri. La sua falce sapeva di confidenze, confessioni che avrebbe voluto raccontare, forse, alle orecchie innocue delle prime stelle fulgide.

Tradiva, quella volta, la sua figura tondeggiante e idolatra.
Ciononostante, Harry la osservava sporcarsi di colpe, infrangere le promesse mantenute rincantucciandosi da vera codarda.

Il vento aleggiava leggero, libero nell’atmosfera. Sapeva di adulterio mortale e divino, svegliava le chiome degli alberi ormai fioriti dalla stagione; e poi, spifferava loro tutto quello che di proibito conosceva. Ed il ragazzo che offriva il viso nella direzione opposta, origliava i suoi sussurri velati e rendeva proprio quello che realmente apparteneva ad altri.

L’aria lo colpiva con incuranza in pieno volto, eppure – sebbene la sua acconciatura si presentasse come un tripudio disordinato, composto da onde e ricci – quella calda brezza estiva non sembrava affatto infastidirlo.

Teneva la schiena lievemente ricurva in avanti, sporgendo sul parapetto in pietra di un balconcino al piano superiore della villa. Poggiava una guancia sul pungo chiuso e mantenendo stretta una delle sue ultime sigarette tra le dita, permetteva al tabacco di consumarsi lentamente, senza accusare il bisogno di gustarsi l’ultima manciata di tiri rimanenti. Scosse il rotolino cilindrico un paio di volte, diverse briciole di cenere baciarono la polvere della sabbia che accerchiava quell’abitazione.

Non era trascorso molto tempo da quando Harry aveva abbandonato le mura interne della casa, gremita di uomini e donne vestiti di tutto punto. In pochi attimi gli era divenuto impossibile dimenticare il doppiopetto dei signori curato in ogni rifinitura; il colore egualmente corvino delle loro giacche; la cravatta legata con un classico nodo e le scarpe lucide ai loro piedi, la barba ispida e i movimenti profumati.
Tutta quell’eleganza in un sol colpo non faceva per lui, cominciava a nausearlo.

La sua figura scialbava nella lucentezza delle perle vistose, nel valore dei gioielli che venivano esibiti nella maniera più incondizionata, agghindanti i lobi e i polsi o il décolleté scoperto delle signore – indossavano un paio di tacchetti avvenenti, il portamento inevitabilmente composto, il solito fare millantatore; mentre i passi femminili battevano contro le mattonelle ceree del pavimento, un fraudolento sorriso genuino si curvava ampiamente in volto ad ognuna quando riconoscevano i volti a loro familiari.
 
Ognuno era stato accolto benevolmente, nell’esatta maniera richiesta dai signori della magione.

Disposti all’adito, diversi domestici avevano sfilato i cappotti dalle spalle dei singoli invitati. Dopodiché, pregando di essere seguiti lungo l’atro che conduceva alla faraonica sala dove si sarebbe svolta la serata, serviti su un vassoio argenteo in acciaio, offrirono delle tartine salate – il ripieno al tonno o al salmone, speziato e amorevolmente preparato in casa.
Così, ben presto germogliò un fragoroso ed incontenibile vociare in attesa della giunta degli ultimi ospiti. C’era chi discuteva di politica, chi di business o svariati affari; chi si limitava a sogghignare alle battute dei propri interlocutori senza mai realmente proferire parola. Chi invece annuiva di rimando, in silenzio, forse nell’intento di apparire interessato alla discussione intrapresa.
 
E poi, c’era Louis.
 
Dava le spalle alla maggior parte della sala.
La sua attenzione venne catturata dalla memoria riecheggiante del ticchettio assiduo appartenente alle lancette di un orologio a pendolo. Secolare quasi, arredava una parete frontale della sala portante.
Era antico, in legno di castagno, probabilmente risalente ad una delle generazioni più anziane della sua dinastia – quella dei Tomlinson, doviziosa stirpe parigina, padrone di quella badiale abitazione.
Aveva un vago ricordo infantile del suo battito continuo e dell’improvviso scoccare. Al contrario, ricordava vividamente le mani del nonno che lo tenevano in equilibrio sul suo dorso dritto e sicuro, quella voce attempata che gli raccontava i migliori posti per nascondersi in quel luogo e, infine, la prima volta che gli venne raccontata la breve e quasi futile storiella che si celava dietro il colore ebano di quel segnatempo.
 
Il nonno aveva tossito prima di cominciare a raccontare.
Quando il tuo bisnonno era piccolo, questo orologio era già qui. Trascorreva le giornate ad osservare il pendolo oscillare, prima di qua e poi di là.” 
Ricordava bene come lo aveva fatto ridere, muovendosi da un lato all’altro, solleticandogli il petto al suono accentuato delle ultime parole. “Il padre lo sgridava sempre dicendo che avrebbe dovuto imparare a guardare le lancette..”
 
Il piccolo Louis lo aveva interrotto, chiedendo di poter scendere dalle sue spalle.  E allora, finalmente con i piedi per terra, confessò che neanche lui sapeva guardare l’ora.
 
Si era avvicinato maggiormente alla sottile lastra di vetro che riparava il solido pendente, la punta delle sue narici finì per appiattirsi contro di essa.
“Perché bisogna imparare?” aveva domandato, la voce innocente sembrava quasi ignara del crudele mondo che avrebbe tentato di rapirlo nel corso degli anni.
In attesa di una risposta, Louis cercò attentamente la magia di quell’orologio, il braccio fatato ed invisibile che permetteva al disco placcato di muoversi lateralmente. Tentò invano di allungare lo sguardo oltre la teca, alzò gli occhi per trovare le ali sfarfallanti di una fatina o alcune tracce fluttuanti di polvere magica. Trovando però nient’altro che segni lasciati dal tempo e dalla polvere.
 
Poi, d’improvviso, il rumore scoccante del mezzogiorno finì per spaventarlo – echeggiava in gran parte della casa e, dietro di lui, il nonno aveva cominciato a ridacchiare osservando le sopracciglia aggrottate, confuse e al contempo sgomentate, dipinte sul proprio volto infantile.
 
“Proprio per questa ragione, Louis, per non spaventarci ai rintocchi dell’ora.”
Gli aveva confidato il nonno, dopo uno dei suoi momenti di silenzio.
Confuso quanto prima e lievemente stordito dal rumore dell’orologio, il bambino aveva chiesto di tornare a giocare assieme lasciando che il suono di quelle parole si perdesse, mitigato a quello delle lancette.
 
Per pochi istanti il mormorio della sala sembrò sbrancare completamente. Ma poco dopo la realtà era presto tornata a bussare alla fragile porta dei suoi pensieri.
Un colpetto lieve gli aveva scosso la spalla destra.
Il ragazzo trasalì immediatamente quando una scia sembrò disintegrargli ogni piccolo anfratto della spina dorsale. Louis si era voltato prontamente, rapido, e in quel preciso momento una fitta venne a dilagarsi nell’incavo del suo collo. Dolorosa e pungente. Sottovoce, Louis finì per maledirsi.
 
«A cosa stavi pensando?»
 
Il palmo di sua madre era appollaiato sul tessuto morbido della sua giacca. Stringeva tra le mani uno dei calici che erano stati cominciati a servire, poco meno che pieno – la forma a tulipano, riempito dal gusto pungente delle piccole ed insignificanti bollicine che avrebbero scoppiettato lungo la discesa delle gole bollenti.
 
«Niente,» le rispose e con una mano prese a massaggiarsi il punto dolente.
 
«Vogliono fare il discorso.»
La donna aveva curvato un angolo delle labbra, facendo mero accenno ai due uomini poco distanti da loro: suo padre e il Signor Styles, Desmond, uno di fronte all’altro. Ridacchiavano in maniera irrefrenabile scambiandosi le, probabilmente, peggiori battute mai pronunciate prima di quel momento.
«Harry non si trova in giro e non possono cominciare senza di lui.»
 
Al che, Louis roteò gli occhi al cielo.
«Vado a cercarlo,» disse.
Servendosi di un ampio sorriso, la madre lo ringraziò.
 
Louis superò l’intera sala, il passo spedito mentre lanciava diversi sguardi in direzione di ogni angolo: aveva esaminato attentamente i diversi gruppi di persone, intento a trovare la sua figura slanciata, il colore pescato del costoso completo che indossava o i capelli ricci del ragazzo dato per disperso.
Varcò la soglia di altre stanze fino a giungere il piano superiore, deserto di ospiti.
 
I corridoi erano tutti egualmente illuminati dalla luce bianca di diverse lampade e il fresco estivo riempiva ogni vuoto. Poi, in fondo all’ambulacro, la porta della sua camera da letto socchiusa. Strano, pensò, ricordava di averla chiusa.
A quel punto sperava solo che Harry si trovasse lì, le sue scarpe ai piedi del letto e il corpo disteso sul comodo materasso, forse assopito e avvolto nel piumino intriso della sua profumata acqua di colonia. Ad ogni modo, quando la porta venne spalancata in maniera zelante, Louis avvertì il sangue agghiacciarsi immediatamente nelle vene.
Gli si assiderarono quasi le membra, calde, in contrasto alla bassa temperatura che arieggiava nella camera, esageratamente ventilata.
In men che non si dica il suo sguardo finì per catapultarsi alle ante spalancate della portafinestra che dava al balconcino.
 
La stanza traboccava di gelo e le tende si scostavano leggere. I suoi denti batterono, strinse i pugni lungo il corpo – a farsi coraggio, presumibilmente.
A quel punto si sarebbe potuto giocare le ultime carte in tavola e scommettere che il ragazzo dai riccioli castani era proprio lì fuori, a bearsi quel candido freddo e ad inumidirsi di bruma estiva. Avrebbe stretto la mano al diavolo e venduto la sua anima.
 
Trasportato da una fioca folata di vento, un odore familiare raggiunse il suo olfatto.
Aveva inspirato per bene quella traccia di tabacco bruciato che gli giunse alle narici e fatto rifugiare le mani nelle tasche dei pantaloni mentre raggiungeva l’esterno, assodato di trovare il colore acerbo delle iridi di Harry, immerse nel freddo della calda stagione.
Louis lo scorse affacciato al parapetto, che guardava l’orizzonte con lo sguardo alla ricerca di un infinito proibito – sentendolo arrivare, si era voltato proprio verso di lui.
 
«Come ci sei finito qui fuori?» gli aveva domandato. Vide il ragazzo spegnere la sigaretta ormai consumata contro la pietra umida della balaustra.
 
«Ho oltrepassato la porta.»
Il suo tono di voce era ovvio, l’espressione lapalissiano.
 
«Intendo..»
«So cosa intendi, amore.»
 
Al pronunciare di quelle parole Harry finì per precipitarsi tra le sue braccia, si inebriò di quel familiare tepore che parve rianimarlo, riscaldandolo e rendendo nuovamente mobili i suoi arti intirizziti. Aveva avvolto le mani dietro la schiena del maggiore, curvandosi appena data la leggera differenza che vi era nella loro altezza.
Lo strinse più che poté e quel gesto sembrò quasi paralizzare Louis che teneva le mani ancora nascoste nelle tasche dei pantaloni mentre qualcosa lo teneva bloccato – boccheggiò lievemente facendo per sfilare i palmi e congiungerli proprio come aveva fatto il suo ragazzo; al contrario di quest’ultimo, una briciola di incertezza si intromise nei suoi movimenti.
 
Non era strano, affatto.
Louis adorava gli abbracci di Harry, più di qualunque altra cosa al mondo.
 
Malgrado ciò, quella sera, un alcunché di indescrivibile e forse irriconoscibile parve appropinquarsi di una tonalità differente dal solito in quel gesto improvviso ed inaspettato.
Allora Louis lo strinse maggiormente a sé. Contrasse i muscoli delle braccia avvolgendolo come una coperta calda fatta a maglia, intrecciata dal ferro e dalle mani delicate del loro amore. Aveva lasciato un bacio tra i suoi capelli ondulati. Poi, interrompendo l’abbraccio e portando le mani ad incorniciargli la pelle liscia del volto, riuscì finalmente a guardarlo in maniera limpida negli occhi. Le pupille dilatate e le palpebre fiacche a nascondere parte delle sue iridi lucide. Posò dolcemente le labbra sulla punta del suo naso.  
 
«Sei stanco,» constatò.
Di rimando, Harry annuì sonoramente. «Hm-hm.»
 
Il più grande gli aveva sorriso empatico.
La parte più intima del suo corpo sembrava accendere un piccolo focolare in lui. Uno spasimo sui lineamenti, adesso rattristiti. Un affrettarsi del battito cardiaco.
Bruciava strati precisi di quel tessuto striato, sangue svigorito nel sentire la sua voce arrochita pronunciare quelle parole prive di vivacità.
Harry si preoccupava di essere sentito, le stelle li stavano osservando e la luna aveva affilato l’udito. Le nuvole incupite marciavano lentamente via.
 
«Mi dispiace, tesoro. Posso chiedere di annullare la cena, io-»
 
«No, no..» lo interruppe Harry. Portò le sue mani contro i dorsi dell’altro, facendole allontanare dal proprio viso, quelle di Louis accennavano ad intiepidirsi e prima o poi sarebbero state sfibrate interamente del loro calore. «Posso chiederti una cosa?»
Parve azzardare.
 
«Qualunque cosa tu voglia.»
 
Proferite tali parole, in seguito, Louis non seppe riconoscere cosa gli mozzò il fiato per primo: la domanda di Harry o la folata improvvisa di vento che sembrò abbattersi nella sua direzione, colpendolo pienamente.

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