Da Oggi in Poi

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"Clyde, c'è posta per te!" sentii urlare dall'altra stanza quel fatidico venerdì mattina. Smisi di sventrare il coniglio che la sera avremmo mangiato, e, dopo essermi dato una ripulita, raggiunsi mia moglie sul porticato. Ad ogni passo, un inspiegato senso di angoscia, mi assaliva: cosa ci potrà mai essere di così importante?

"Eloise cos'è?" domandai una volta incrociato il suo sguardo.

"È una lettera dal Boston Hill Hospital... penso sia accaduto qualcosa a Edith" disse sedendosi sul piccolo dondolo della nostra casa di campagna.

"Passamela" ordinai. In quel momento il senso di angoscia che avevo provato poco prima sembrava avere un senso. E se alla mia piccola Edith fosse successo realmente qualcosa? Assunsi la mia solita espressione imperscrutabile e aprii la busta.

"... non abbiamo potuto fare niente...malore improvviso... provvederemo...la sepoltura..."

Pizzicore all'occhio sinistro, poi a quello destro e per la prima volta, dopo anni, una lacrima di sconforto, mi solcò una guancia. Non mi curai di asciugarla, la lasciai scorrere. Subito ne seguì un'altra ed allora mia moglie capì.

Richiusi in fretta la busta e la poggiai di fianco a Eloise, sul dondolo.

La nostra unica figlia era, ormai da qualche mese, in un ospedale a Boston, nel Massachusetts. Le era stata diagnosticata una malattia terminale e noi, da esattamente sette mesi, ci alzavamo dal letto sperando che anche quel giorno rimanesse con noi. Era un tumore la causa del suo viaggio; una malattia da poco scoperta e con metodi di cura per nulla all'avanguardia. Grazie a varie conoscenze, Edith, era stata in grado di trovare un buon ospedale, ma che si trovava, purtroppo, a giorni di viaggio da qui.

"La mia piccola! Non può esserle successo davvero! Oh buon Dio prenditi cura di lei". La vidi inginocchiarsi lì a pregare: nel bel mezzo dell'atrio, e da lì non si mosse fino a notte inoltrata, quando mi raggiunse a letto. Prese la vestaglia da sotto il cuscino, mi lanciò una rapida occhiata, dalla quale, nonostante fossi senza occhiali, potei scorgere le occhiaie infossate, e si diresse nel piccolo bagno posto alla destra del letto.

Come avevamo fatto a perdere l'unica cosa bella che ci rimaneva al mondo?

Mi girai su di un fianco, allungai il braccio destro e presi dal comodino i miei occhiali da vista. Trovatomi di fronte ad una vista più nitida della stanza, mi alzai dal letto con movimenti lenti, per colpa degli acciacchi, e dalla grande cassapanca di pino giallo, estrassi il vecchio diario di Edith. Tornai nel letto con il diario in mano, tirai la coperta a scacchi di flanella fin sotto le ascelle e mi fermai a fissare la copertina; era semplice. Niente ghirigori o decorazioni, solo un rivestimento in pelle consunta con l'incisione di tre piccole lettere nel mezzo: E.H.S.

Edith Helena Smith.

Quando è nata, avevamo deciso di chiamarla come la nostra città, Helena, come tributo a tutto quello che in quegli anni ci donava: campi floridi, acqua in abbondanza, una casa tutta nostra, una fattoria che ci permetteva un guadagno sopra la media.

Niente.

Senza di lei, tutto questo non contava niente. Per la seconda volta quel giorno, sentii gli occhi pizzicare, ma piegai la testa indietro e strizzai gli occhi per ricacciare le lacrime al loro posto.

Non avevo mai avuto il coraggio, in questi sette mesi, di leggere il suo diario, nonostante me lo avesse chiesto prima di partire.

Un respiro, due respiri e poi un ultimo: sfogliai la prima pagina.

12 Dicembre 1868

Ciao, oggi mio padre ti ha affidato a me. Non so cosa dovrei fare di preciso; quando, qualche giorno fa, ha letto un mio tema per la scuola ho subito esclamato: "Guarda Eloise, nostra figlia potrebbe diventare qualcuno di importante nel mondo del giornalismo!".

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