05 - Nel posto giusto

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Non era previsto.
Quella mano, quella siringa, quel buio, quella perdita di conoscenza... non era previsto niente di tutto ciò. Sarei dovuta scappare di casa e raggiungere la riva del mare, poi andare più lontano ancora e girare il mondo. Chisenefregava che avrei dovuto correre per tutta la vita?! Lo avrei di gran lunga preferito al non poter decidere da sola per la mia fottuta vita.

Con movimenti lenti e calcolati, scostai la coperta bianca con ghirigori d'oro per mettermi a sedere. Mi strofinai un occhio col pugno e, con la mia solita eleganza, sbadigliai senza alcuna preoccupazione! Avevo mal di testa, ma non potevo dormire per sempre.

Il mio sguardo, cadde immediatamente sul comodino, precisamente su un foglietto stropicciato con su scritto a caratteri cubitali: "Tanti auguri". Vicino c'era una piccola scatolina rossa, e nonostante mi procurasse non poca curiosità, decidetti di lasciarla lì.

Ero in una stanza bella, da sogno, quasi come quella in cui ero cresciuta, ma che non conoscevo, eppure l'unica in cui dovevo essere. Non c'era bisogno che me lo dicessero altri, sapevo bene che in qualsiasi modo sarebbe andata, questa sarebbe stata ugualmente la mia prossima casa. Poggiai i piccoli piedi scalzi sul pavimento freddo e sistemai i vestiti stracciati, gli stessi che avevo il giorno prima. Non avevo neanche bisogno di specchiarmi per percepire il trucco sbavato e i capelli arruffati.

Mi misi a cercare il cellulare, ma niente. In tempi record mi ritrovai in una camera completamente in disordine, ben diversa da come l'avevo trovata al mio risveglio. Ovviamente, la porta era chiusa a chiave. Senza dimenarmi ancora, raggiunsi la grande finestra e scostai le tende, rigorosamente bianche; il sole entrò dentro con una tale violenza da farmi serrare gli occhi. Era impossibile uscire. Ero troppo in alto, e per di più, anche quest'uscita era stata sigillata per bene.

Mi buttai con la schiena alla parete, esausta;
Era una cosa che facevo sempre quando mi serviva un nuovo piano studiato bene. Mi lasciai scivolare su di essa fino a sedermi e stringere le gambe al petto, per poterci lasciare la testa su.

Proprio quando pensai di aver perso tutte le speranze, la porta creò uno strano cigolio, obbligandomi a portare lo sguardo su di un uomo che non avevo mai visto prima. «Buongiorno, signorina Harley.» alle sue parole, restai di pietra. Mi truonò in testa quel "Finalmente"... Mi ci volle pochissimo per riconoscere quella voce, una sola volta era stata più che sufficiente «Sono venuto a chiederle scusa...» il suo timbro di voce era basso e tremante. I suoi occhi piccoli e chiari. Era agitato, ma io non provavo alcuna pietà.

«Dove sono?» domandai, col tono più autoritario che conoscevo. Era da quando avevo aperto gli occhi che desideravo formulare questa domanda a qualcuno, e finalmente era giunto il momento. Il problema è che proprio mentre stavo per dare una risposta a tutti i miei dubbi, il tempo apparve più pesante:

«Matthew. Lasciaci soli, per cortesia» ordinò una voce diversa, maschile, dolce e dura allo stesso tempo. Calma, calda, ma ugualmente distante.
Carismatica. Ma non nuova. Il ragazzo delle scuse mi mandò un'occhiata veloce, mi guardò dritto negli occhi, come se non volesse perdermi di vista, come se non avesse finito di parlare... Eppure, annuì spostandosi per far spazio ad un altro paio di occhi: belli da far invidia al all'universo, ma scuri da terrorizzare persino il buio. Non lasciavano trasparire alcun tipo di emozione, pareva che tutto ciò che provasse fosse bloccato in quella lastra di ghiaccio. Si intonavano alla perfezione con i suoi capelli neri, lasciati liberi e scombinati. I suoi lineamenti erano delicati, ma il suo modo di fare no, per niente. A giudicare dal suo volto non doveva superare i 28 anni, ci avrei messo la mano sul fuoco. Alla luce del sole mi parve quasi diverso. Sembrava essere stato disegnato minuziosamente dal migliore dei pittori. Nella parte bassa del viso era presente un accenno di barba, non troppo folta, ma curata. Le labbra, che avevo assaporato qualche ora prima, perfette. Al collo era presente una macchia rossaccia, come se una sanguisuga avesse cercato di strappare via il suo sangue.
E potevo giurarlo,
il giorno prima non c'era.

Il ragazzo moro si chiuse la porta alle spalle e restò sul posto, infilando le mani in tasca. Mi guardò dall'alto, con una strana espressione interrogativa. Generalmente, avrei chiesto spiegazioni, avrei fatto così tante domande da farmi odiare, peccato che avevo un nodo in gola e le uniche parole che mi sarebbero uscite fuori sarebbero state prive di forza. Il silenzio che ci avvolse venne spezzato da un sospiro, il suo, il chiaro segno che avermi in casa, non piaceva neanche a lui. «Allora... Harleen Wood"Harleen" nessuno mai mi chiamava in quel modo. Mi parve così strano da farmi rivoltare lo stomaco «Spero che tu abbia dormito bene nel mio letto...» quel ghigno che sfoderò, sottintendeva tutt'altro. Sistemò il colletto della camicia bianca e attillata; il mio sguardo cadde sul suo petto, coperto, si, ma questo non bastava certo a cancellare i segni del duro lavoro in palestra.

Mi guardava negli occhi, torturandomi. Una parte di me desiderava distogliere lo sguardo e tornare a respirare, tuttavia, il mio orgoglio non me lo permetteva. Avevo le guance rosse, faticavo a mantere il respiro costante, e non per questo ero pronta ad abbassa la testa. Anzi, volevo - contro me stessa -, studiarlo a fondo: dal tono della sua voce, dalla postura fiera e dal modo di porsi, si evinceva chiaramente che non temeva nulla, e neanch'io.

Mi arrivò davanti. Probabilmente avrei dovuto alzarmi e mostrargli il mio valore, solo che non mi andava. Non ancora. Avevo bisogno dei miei tempi, soprattutto di ricordare a me stessa che Lui era un Leister e questo significava una sola cosa: il mio secondo carcere. "Un" perché mia madre mi aveva detto chiaramente che Henry ne aveva più di 40, di anni, ma l'uomo di fronte a me ne dimostrava solo la metà. «Dov'è finita la tua lingua?» chiese, chinandosi di pochissimo verso il mio viso a chiazze rosse.

«Avete cosí tanta paura di me da dovermi addormentare per avermi con voi?»

«Già...» sfoderò un ghigno. Non riusciva a crederci nemmeno lui, era come se questa cosa non fosse stata definita, come se fosse successa senza il suo consenso, come se per un attimo avesse perso la situazione dal pugno. Si grattò la guancia, fissando un punto indefinito che si trovava sul pavimento, a pochi passi dai miei piedi. «In realtà non è stata una mia idea, quella» e non era difficile da credere. «C'è da dire però, che sei nel posto giusto... ribelle» si fermò fissando intensamente e continuamente i miei occhi grandi «E questa... è l'unica cosa che conta» disse, sorridendo appena.

«Stai scherzando?»

«Affatto.»

Chiusi gli occhi, strinsi i pugni e buttai la testa indietro; mi bastò pensare di star avendo a che fare con qualcuno che mi aveva rovinato i piani, per tornare a squartarlo come lui provava a fare con me. Mi misi in piedi e con la solita forza che tanto mi contraddistingueva, mi feci avanti.
Mi scagliai completamente contro di lui, senza pensare alle conseguenze.

«Non mi interessa di chi sia stata l'idea. Mi avete scambiata neanche fossi un oggetto, mi avete rincorsa come se fossi la peggiore delle criminali, mi avete ingannata, addormentata e portata qui contro la mia stessa volontà. Vi siete mai chiesti se questo fosse ciò che voglio io?»... «È  ovvio: NO» urlai, fuori di me, spingendolo senza fare una piega. Infatti, in un lasso di tempo brevissimo, mi bloccò le mani, tirandole verso di sé. Provai a liberarmi, ma invano «Voglio delle scuse e delle spiegazioni valide. Ne ho tutto il diritto», sussurrai, stremata. I suoi occhi vuoti, cercarono ancora di scavare nei miei, quasi persi. Odiavo quella sensazione di vulnerabilità, forse non si poteva definire così, ma mi sentivo spaesata e confusa - qualcosa che non mi piaceva per nulla e che non mi si addiceva. Un rumore improvviso mi distrasse... ma non bastò ad irrigidire anche lui.

«Benvenuta all'inferno, bambolina.» fu l'unica cosa che riuscì a dire, a denti stretti, a voce bassa, prima di allentare la presa e lasciarmi alle sue spalle, così, senza neanche una risposta che potesse soddisfarmi.

Restai inalberata sul posto,
per la prima volta senza qualcosa da dire.
Con passo fiero raggiunse la porta, aperta. Non mi sfuggì quella specie di sguardo che mandò ad un altro uomo, fermo con le braccia al petto e uno sguardo inquietante che mi ricordava tanto quello del ragazzo moro che era riuscito a spiazzarmi,
ancora senza nome.

Avevo un ottimo intuito e la sua divisa mi semplificò le cose; lo ricondussi subito ad Henry,
l'agente dell'FBI, colui che avrebbe dovuto proteggermi.

"Out of control" - Gabriel Guevara FFWhere stories live. Discover now