Equinozio di Primavera

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Come dimenticare?

Era l'equinozio di primavera. Solo una fragile tela mi separava dall'immenso patagonico.

Ero arrivato con il buio, guidato dal rombo delle onde che, già diversi chilometri prima, mi aveva improvvisamente raggiunto.

Giacevo su quella spiaggia con l'aria ancora impregnata di deserto, leggendo in me la tensione del troppo e l'abbandono alla speranza.

A momenti mi coglieva l'idea di un immane tsunami e immediatamente dopo il suono dolce, la nenia di culla di quelle onde mi ammaliava. Ero davanti all'oceano, percepivo l'infinito di fronte a me, ma l'oscurità m'impediva di distinguere quel moto perpetuo.

Il barrito di una balena mi destò da quel dormiveglia impalpabile; la salsedine, l'aroma acre delle alghe... i miei pori avevano assorbito con avidità quel sapore familiare ma ora infinitamente sconosciuto.

Uscii dalla tenda e sedetti sulla sabbia composta da minuscole pietre arrotondate e fissai lo sguardo verso l'orizzonte immaginario.

Il sacchetto di juta che mi aveva dato il "curandero" era accanto a me. Attendevo il sorgere della luna per donare quel feticcio alle onde del mare.

Avevo passato gli ultimi mesi in quelle terre ed era già passato un anno dalla morte di mio padre.

Lo stesso nodo mi stringeva la gola nel ricordo di quel perdono non concesso, dell'incontro rifiutatogli nonostante la sua morte vicina, finché il mio rifiuto aveva oltrepassato l'abisso del non ritorno ed avevo perso tutti, anche me stesso.

Sicuramente questo mi aveva portato fin laggiù, nella terra della fine del mondo, ma forse inconsciamente, quelle parole lette a suo tempo su di un opuscolo, "Patagonia, la tierra del fin del mundo" proprio quelle parole, mi permisero di identificarmi con qualcosa.

Il vuoto in cui navigavo era totale e non trovavo scampo a me stesso.

Ed ero partito.

Avevo tardato un mese per capire cosa cercavo in quella città sconosciuta, piena di modernità e miseria, in cui ero arrivato; avevo camminato tra grattacieli e baracche, tra supermercati e documentari sulla miseria senza capire né comunicare, poi mi resi conto che tutt'intorno, per centinaia di chilometri avevo il deserto, l'infinito deserto patagonico.

Era lì il mio destino, nel cuore della fine del mondo.

Sono salito su un "colectivo", una specie di autobus sbilenco e traballante e sono penetrato in quel sogno atavico.

Dodici ore dopo sono atterrato a Gan Gan: un po' di baracche, qualche modesta casetta ed un vento terribile con il quale il deserto mi accoglieva imponendomi il suo predominio.

Una baracca con un letto e nient'altro era diventata il mio rifugio in questo tempo, "el alojamiento" come mi dicevano, ed il deserto, che iniziai a scoprire pieno di vita nascosta, accompagnava il mio pellegrinare giornaliero, mentre con i suoi venti sussurrati o gridati, con l'arena sollevata che mi lustrava la pelle e la speranza, cercava di comunicarmi qualcosa.

Poi passando accanto ad una baracca un po' isolata dalle altre, un vecchio dalla faccia da indio, come quasi tutti gli abitanti di quel villaggio, mi chiamò e m'invitò in "casa".

Iniziavo a capire lo spagnolo e intuivo le sue parole.

"E' da tempo che vedo girare la tua anima che cerca il deserto." Il suo parlare era lento e pieno di lunghe pause in cui penetrava il sibilo del vento.

"Vedi, io sono indio, faccio parte di questo popolo di ubriaconi, ignoranti e fannulloni, come ti avranno già raccontato, come troppi ormai ci considerano." Effettivamente più d'uno in città mi aveva detto queste cose.

"Ormai spariremo; anzi siamo già scomparsi." Sussurrò, "La rassegnazione ha preso da tempo il posto dell'orizzonte infinito del deserto.

La miseria è la nostra regina ed ha sostituito la nostra cultura. Vino e pane in cambio di anime.

Siamo invisibili come "las matas", gli infiniti cespugli del deserto.

Anche se a volte nel profondo del nostro sangue palpita con rabbia l'orgoglio di un popolo che avrebbe dovuto essere, questa indignazione si trasforma ormai in effimere nubi senza pioggia.

Ecco chi ti parla.

Ma tu non devi ascoltare me, tu non devi tendere l'orecchio a chi parla, devi ascoltare chi ascolta".

Il vento tacque ed il silenzio s'impossessò di me.

Poi, dopo il vuoto, iniziai a parlare, a raccontare, a vuotarmi, non so per quanto tempo. Ricordo che mi sono fermato e sono uscito perché avevo necessità di svuotare anche lo stomaco e far posto al deserto che premeva.

Bevvi qualcosa che "el curandero", lo stregone-medico del villaggio come scoprii poi, mi diede e continuai a parlare senza voce.

Quando mi svegliai lui, era lì e mi osservava.

Prese una bottiglia di vetro chiaro piena di un liquido trasparente e la agitò davanti ai miei occhi. Dal fondo si rimestò una fanghiglia che rese torbido il liquido.

Era il tramonto, uno di quei tramonti sconvolgenti che solo il deserto sa donare.

Mi mise davanti il contenitore.

"Guarda la bottiglia." Mi disse fissandomi negli occhi.

"Se vuoi capire, devi fare quello che vedi."

Mi lasciò lì da solo, immobile.

Poco a poco la melma iniziò a depositarsi e apparve di nuovo l'acqua limpida.

Allora capii.

Il giorno dopo il curandero filtrò l'acqua dalla poltiglia del fondo e mi ordinò di berla nel mio viaggio verso l'oceano; mise il deposito in un sacchetto e mi disse di gettarlo nell'oceano quando "Quillèn", la luna piena, mi osservasse attraverso il mare.

Di lì a poco passò una specie di fuoristrada e lui me lo indicò.

"Vai con lui ti lascerà a pochi chilometri dalla spiaggia."

Ora osservavo quel sacchetto accanto a me e aspettavo ansioso il sorgere della luna-Quillèn per gettare quel fagotto pesante... e Quillèn arrivò e mi osservò attento mentre gettavo quella piccola borsa vuotandomi di quello che ancora avevo riservato per me; il pianto mi colse di sorpresa ma il barrito della balena tornò a destarmi, osservai e la vidi sul riflesso di Quillèn, mentre si tuffava e poi mostrandomi la sua coda ondeggiante mi salutava. Un gruppo di delfini saltò non lontano dalla riva. I cormorani gridavano qualcosa. Ero mare anch'io.

Come dimenticare?

Era l'equinozio di primavera.

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⏰ Last updated: Apr 25 ⏰

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