CAPITOLO SETTE

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LEILA

Il cuore mi batteva nel petto con una tale violenza che credetti di essere sul punto di soffocare.

Nella penombra della stanza mi portai una mano tremante al collo come a volermi liberare da delle grosse catene invisibili.

Pioggia. Lampi. Tuoni. Un vecchio lampione. Il trillo del campanello.

Chiusi gli occhi, cercando di scacciare via le immagini terrificanti che si susseguirono fulminee come flashback.

La perdita, il dolore, l'orrore era tutto lì davanti a me, potevo vederlo e toccarlo, sentire le urla di mia madre. Vedere le corse dei medici e degli infermieri. Mio fratello in un groviglio di fili e macchinari.

Non sei lì, Leila. Non sei lì.

Ma le tempie pulsavano, gli occhi lacrimavano, e la mia mente iniziò a delirare.

Mi parve di sentire addosso ancora l'odore sterile dell'obitorio, il freddo della pietra e del marmo, i singhiozzi dei parenti.

Mi vorticò la testa, le orecchie fischiarono, le gambe cedettero, mi accovacciai a terra, con la schiena premuta contro la porta. Le ginocchia strette al petto, il corpo bagnato di acqua e sudore freddo.

"È il temporale, Leila. L'evento che scatena gli attacchi. Ma se sarai in grado di prevenirlo, sarai anche in grado di gestirlo."

Ripensai alle parole della dottoressa da cui ero andata in cura anni prima, e mi diedi della stupida, perché a differenza delle altre volte, quella sera mi ero lasciata distrarre da qualcos'altro.

Se solo fossi stata più attenta mi sarei resa conto del suo imminente arrivo, e avrei potuto agire di conseguenza, come facevo sempre.

"Concentra la tua attenzione su qualcosa che ti ha reso felice, qualsiasi cosa" mi aveva detto, ma io non avevo alcun ricordo felice a cui aggrapparmi.

Nessuna gita di famiglia in campagna.

Nessun primo bacio travolgente.

Nessun abbraccio caloroso.

Non avevo mai assaporato la felicità, perché per tutta la mia vita, non avevo fatto altro che tentare di sopravvivere cercando di attutire i danni collaterali di chi mi stava attorno.

Premetti i palmi delle mani sul pavimento legnoso perché avevo bisogno di toccare qualcosa di tangibile, e provai a riprendere il controllo dei battiti del mio cuore. Inspirai dal naso, lentamente, contando fino a tre. Come vi aveva insegnato a fare la dottoressa. Trattenni il respiro per un attimo, poi lo rilasciai dalla bocca contando nuovamente fino a tre. Ripetei lo stesso esercizio fino a quando non sentii le spalle rilasciare un po' di tensione, e la mente farsi meno opprimente.

Mi guardai attorno, per riprendere il contatto con la realtà. Il temporale infuriava ancora all'esterno, ma con il passare dei minuti il suono del tuono iniziò a sembrarmi meno minaccioso, fino a quando qualcuno bussò alla porta, con insistenza.

Sgranai gli occhi e deglutii.

Non volevo farmi vedere in quelle condizioni da nessuno dei ragazzi.

Troppo pietosa e vulnerabile per permetterlo.

Perciò, non risposi, chiunque fosse, doveva andarsene.

Ma poi lo sentii parlare.

E quella voce, la sua voce...

Fu in grado di recarmi sollievo e scompenso al tempo stesso.

«Ley, sono io. Per favore, apri la porta...» la sua supplica fu lampante ma non bastò a dissuadermi.

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