24.Ventiquattresimo capitolo

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JORGE'S POINT OF VIEW.

È tutto completamente buio. Tutto nero, più scuro della notte, più scuro delle profondità marine. Più scuro di qualsiasi altra cosa abbia mai visto; perché è tanto scuro da mancarmi il fiato, da farmi perdere un battito. Tanto scuro da farmi paura, come effettivamente non ne ho mai provata prima.
Nel buio, le uniche cose che riesco a sentire sono il rumore dell'acqua che scorre. Potrebbe essere il mare, o un fiume. Più semplicemente, potrebbe essere qualche goccia caduta da un rubinetto lasciato aperto per sbaglio, per quanto ne so. Nel buio, sento un odore, sopra tutti gli altri. C'è uno strano odore di fiori, ma non sono sicuro di che fiori siano; ed è mischiato ad un odore che riconoscerei anche da chilometri, o in mezzo alla gente.
L'odore dello shampoo di Martina mi arriva addosso, portato da una brezza leggerissima.
Sento anche freddo, sulla pelle. Come fossimo all'aria aperta, con le intemperie che ci finiscono addosso. E noi fermi lì, immobili, forse ad aspettare che succeda qualcosa. Forse fermi sotto la neve così, per gioco. Forse perché lo voleva lei, o forse perché l'ho voluto io.
Non lo so. Non me lo ricordo. Ricordo poco o niente. Sento fin troppo. E non vedo niente. Nemmeno la mia stessa ombra, o una luce seppur minima proveniente da chissà dove. Niente, se non le tenebre, le profondità del mare, o qualunque cosa sia tutto quel nero.
Non faccio in tempo a capirlo, però, che sento le dita della ragazza al mio fianco staccarsi delicatamente dalle mie. Staccarsi le une dalle altre come se non significasse nulla e come se io non potessi né riuscissi a fare niente per impedirlo. La sento semplicemente staccarsi da me, lasciarmi un bacio a fior di labbra e allontanarsi senza dire niente.
Lasciando il mio "ti amo" ad essere l'unico rumore in quella giornata invernale.
Un rumore che non ottiene risposta, se non il freddo che sento mentre lei si allontana. Un rumore e una frase che rimangono inascoltati, lasciandomi cieco sotto la neve, coi suoi passi che si allontanano attutiti dalla distesa bianca sulla quale camminano.
Sento la voce di Martina arrivarmi alle orecchie. Un po' distorta. Sembra nervosismo, o preoccupazione; ma in realtà non saprei dire che cosa sia, perché le sue piccole mani bianche mi scuotono le spalle, intente a strapparmi da... possibile che sia un sogno?
«Jorge!».
È decisamente preoccupazione, quella insita sul suo viso e nelle iridi celesti che tanto amo. E' sicuramente preoccupazione, dato che non riesco a smettere di tremare. Prendo un respiro profondo - probabilmente un sospiro di puro sollievo - non appena mi accorgo che lei è qui, al mio fianco.
Qui, ancora mezza nuda e coi capelli scompigliati. Le guance rese rosse dalle lacrime mi fanno ricordare... tutto quanto. Le iridi marroni sgranate cercano di vedermi, senza successo; ma a farlo ci pensano le sue mani, che salgono lungo le mie spalle, a fermarsi sul mio collo contratto.
«Amore...», mi sussurra contro la pelle, avvicinandosi sensibilmente. Posa le labbra sulla mia fronte, prendendo un respiro profondo che in chissà quale assurdo modo riesce a farmi rilassare. «Shhh, va tutto bene», continua, stringendomi a sé.
Ed è solo allora che mi accorgo di piangere, di far fatica a trattenere i singhiozzi.
Riesco solo a stringerla a me. A farmi stringere. Riesco solo a nascondere il viso nell'incavo del suo collo e a respirarla cercando di non crollare; perché anche se non riesco a dirlo, quello era un incubo. Un incubo in cui lei scappava da me, lasciandomi cieco sotto la neve.
«Ti amo, piccola». E forse mi basta sentirla sorridere in risposta, per smettere di pensare alla sensazione che ho ancora appiccicata addosso; la sensazione di averla persa è ancora lì, non se ne va nemmeno quando si accoccola contro di me mormorando un timido "ti amo", sussurro bollente contro la neve del mio sogno.
***
Il medico di Martina mi sta spiegando per la millesima volta che cosa sia una risonanza magnetica con mezzo di contrasto, stavolta al telefono. L'aria gelida dell'inverno che sta arrivando entra prepotente dalla finestra lasciata socchiusa, finisce contro la pelle nuda delle mie braccia, facendomi rabbrividire; poi mi supera, e arriva in un attimo a scompigliare il lenzuolo bianco col quale è malamente coperta la ragazza mora nel mio letto, sdraiata a pancia in giù con i capelli sparsi sul cuscino e una ciocca di essi che le scende lungo le vertebre.
Tanto bella che per un momento mi dimentico di essere al telefono.
«So che Martina non era d'accordo, e che ha paura...».
«Ho più paura io di lei», ammetto passandomi una mano tra i capelli.
Dopo stanotte, vorrei aggiungere. Ma non lo faccio. Sento il dottore ricominciare a parlare, e vedo Martina girarsi su un fianco, tirare su il lenzuolo fino a coprire il seno, sospirare appena per la sensazione di freddo e continuare a dormire.
Dopo stanotte, ho paura anche solo a respirare, in sua presenza. Ho paura di toccarla e sentirla irrigidirsi. Ho paura di posare le labbra sulle sue e non sentirla rispondere al bacio. Ho paura che senta quello che penso solo toccandomi. E ho paura che se mai tornasse a vedere sarà lei ad avere paura, tanto da lasciarmi da solo sotto la neve, senza la forza di guardarla allontanarsi.
Dannati incubi.
Benedetto amore.
«Vista la situazione, credo di poterti far entrare mentre la preparano». Ma lo sento appena, concentrato sulla smorfia che si forma sul viso della ragazza che amo. Le si forma una piccola ruga tra le sopracciglia, e sporge leggermente il labbro inferiore in fuori, prima di aprire fin troppo lentamente gli occhi, come in una scena al rallentatore. «Jorge...». Mi sento chiamare, ma non fermo il sorriso che mi spunta sul viso quando la vedo stiracchiarsi, con le braccia al cielo, incurante di essere nuda, per di più. Mi sento chiamare, ma non rispondo, incantato come sono a guardare lei.
Metto la telefonata in attesa senza pensarci due volte, lasciando il cellulare sul bordo della finestra. Trattiene un sorriso, Martinz, ma non dice una parola. Mi inginocchio accanto a lei sul materasso, posandole un bacio sulla spalla nuda. Rabbrividisce, al contatto con le mie labbra, o per colpa della barba; o forse è solo il freddo.
«Buongiorno».
«Hai messo in attesa...».
«Il dottor Harrison, già»
, finisco la frase per lei, facendola scoppiare a ridere. Mormora un "perché" contro le mie labbra, portando le mani al mio collo, fino a giocare coi capelli dietro la mia nuca. «Perché la mia bellissima ragazza nuda mi ha distratto», ammetto, sfiorandole appena il naso col mio.
Ma mentre pensavo di metterla in imbarazzo, lei non fa una piega.
«Che è successo stanotte?». Ignora come me il suo medico. Ignora la telefonata in attesa. Ignora persino il mio tentativo di distrarla e magari imbarazzarla a tal punto da farle dimenticare tutto. Ignora tutto e mi sfiora una guancia, costringendomi a guardarla. «Sussurravi il mio nome come se avessi paura di...».
Perdermi. Sono quasi sicuro fosse quella, la parola.
«Ti ho sognata, e ti allontanavi da me», riesco a dire in un soffio, osservando il suo viso cambiare radicalmente espressione. Le si forma una piccola ruga tra le sopracciglia, storce leggermente il naso e sospira direttamente sulle mie labbra, prima di arricciare le labbra, forse indecisa sulle parole più adatte da usare. Forse solo impaurita quanto lo sono io. «Ero io quello cieco, piccola...».
Sento il respiro spezzarlesi in gola, e entrambe le mani fermarsi sulla mia pelle, all'improvviso. La mano tra i miei capelli si stringe su di essi, mentre riprende a respirare, con gli occhi tristi che nasconde sotto le palpebre. L'altra mano si allontana dalla mia guancia, ma la prendo al volo, intrecciandone le dita con le mie.
«Io non vado da nessuna parte, Jorge».
«Infatti era solo un brutto sogno»
, cerco di rassicurarla, ma forse quelle poche parole servono più a me che a lei. Scuote la testa, con gli occhi ancora chiusi e un sorriso amaro ad affiorarle sulle labbra.
Allora capisco. È come si sente lei ogni giorno a stare con me; sempre sul filo, sempre in equilibrio precario tra la luce e il buio. Sempre con la paura che io possa lasciarla da sola, cieca sotto la neve. Stavolta sono io a sospirare, prima di lasciarle un bacio all'angolo delle labbra e avvicinarmi al suo orecchio.
«Nemmeno io vado da nessuna parte, principessa», le sussurro, a voce bassissima, prima di scendere dal materasso e riprendere il telefono.
Sono decisamente più leggero, con un macigno in meno sul cuore. Decisamente meno impaurito e più innamorato, se possibile. Decisamente meno preoccupato. Decisamente più me stesso, dopo averne parlato con lei. E riprendo la conversazione col dottor Harrison come se niente fosse, come se non l'avessi tenuto in attesa per una vita.
In fondo, non serve spiegargli nulla. Credo che abbia già capito tutto.
E «Lo so che vi chiedo molto, ma prima scopriamo cos'ha Martina, prima risolviamo tutto, prima potrete vivere in pace... magari lontani dagli ospedali, non sarebbe male, no?».
Rido sottovoce, distraendo la mia biondissima ragazza dall'atto di allacciarsi il reggiseno. In un paio di secondi, perde la presa sui gancetti e fa uscire l'aria dalle labbra in uno sbuffo secco, frustrazione pura. Incastro il telefono tra l'orecchio e la spalla, avvicinandomi a lei mormorando un "non sarebbe male, decisamente" e scostando piano le sue dita, sostituendole con le mie.
Le allaccio i due gancetti continuando a parlare col suo medico per un possibile appuntamento per quel pomeriggio, sfiorando la schiena di Martina con la punta dei polpastrelli, sentendola rilassarsi un secondo dopo l'altro, tanto da costringermi ad inginocchiarmi sul letto dietro di lei, in modo che possa posare la testa all'indietro, sulla mia spalla.
«Va bene se facciamo oggi la risonanza?».
Occhi chiusi e respiro pesante, mentre le mie dita scendono lungo la sua pancia, superano l'ombelico e si fermano poco sopra l'elastico degli slip. Annuisce appena. Non so se alle mie dita o alla mia domanda. Annuisce ancora, alzando poi la mano fino al mio viso, fino a trovare il cellulare e chiudere la chiamata, lanciandolo poi sul materasso, tra le lenzuola accartocciate davanti a sé.
«Se sapevo che mi avresti fatto questo effetto non ti avrei permesso di toccarmi», mormora in un soffio, le labbra rivolte contro il mio orecchio, mentre posa una mano sulla mia. Unite, sulla sua pancia nuda. Rido contro il suo orecchio, godendo della formazione della pelle d'oca sulle sue braccia. «Perché sei entrato nella mia vita, mi chiede con un filo di voce in più, decisamente sarcastica.
«Destino, principessa».
***
In fondo nemmeno io sono il tipo di persona a cui piacciono gli ospedali. Non mi fanno paura, ma nemmeno mi piacciono. Diciamo che sono nella giusta via di mezzo. Di solito. Ora, al contrario, non riesco a smettere di passarmi nervosamente le dita tra i capelli. Non riesco a smettere di sospirare di frustrazione, e non vedo decisamente l'ora di andarmene.
Forse sono il tipo di persona che scappa. Forse sono il genere di ragazzo che si tira i capelli fino a farsi del male. Forse amo senza pensarci, o senza esserne pienamente consapevole; sono tardo in materia di sentimenti, inutile negare l'evidenza. Ma se amo, lo faccio fino in fondo. Se amo, non scappo. Se amo, lascio che lei mi stringa la mano, disegnandomi dei cerchietti sul dorso con la punta del pollice. Se amo, prendo un respiro profondo e poso un bacio su una testa di capelli biondo platino, più per rassicurare me stesso che per lei.
«Sei più nervoso di me».
«Vero»
, ammetto, soffiandole sui capelli.
«E' solo un ago nel braccio, un liquido che si mischia al mio sangue, e una quantità indefinita di radiazioni, no?». Sorrido, al sentirla scherzare. Non so come ci riesca. Non ne ho la minima idea, ma trattengo la curiosità. Anche perché non c'è bisogno di domandare, ci arriva da sola. «Merito tuo, se te lo stai chiedendo».
«Mio, eh...».

Stavolta è lei a ridere, la tempia posata sulla punta della mia spalla. Senza lasciarmi la mano, si volta appena e raddrizza la schiena, tanto da riuscire a posare le labbra sulla mia guancia, ma parecchio vicino all'orecchio. «Credo sia merito di stanotte, incubi a parte», mormora contro la mia pelle, sorprendendomi. Una manciata di secondi, e sento un brivido scorrermi giù per la spina dorsale.
«Allora credo sarà così anche domani». Mi fermo per lasciarle un bacio su uno zigomo, e un altro, e un altro ancora. «E il giorno dopo, e quello dopo ancora», continuo, lasciandole una serie di baci, forse facendole il solletico. La vedo leccarsi piano il labbro inferiore, con un sopracciglio leggermente inarcato, in tensione come la sua mano contro la mia. «E niente incubi...».
«Ecco a voi il supereroe che fermava i brutti sogni...».

«Nah, basta solo non dormire», ribatto in una piccola vendetta contro le sue labbra picchiettando delicatamente le dita sulla più alta delle sue gambe accavallate. Lo stronzo che esce piano dalle sue labbra rosa mi fa scoppiare a ridere, contento di aver distratto sia lei che me stesso dalla situazione pesante, un momento prima che il dottor Harrison compaia da una porta dall'altra parte del corridoio.
***
MACARENA'S POINT OF VIEW.

Faccio scorrere le dita tra i capelli scuri e ormai troppo lunghi del ragazzo sdraiato al mio fianco, facendomi scappare un sospiro. Sollevata su un gomito, coi capelli legati in una crocchia sfatta, la mia mano libera gli sfiora il viso, l'accenno di barba, le labbra poco carnose. Picchietto con le unghie blu scuro - quasi nere - su di esse, senza curarmi di poterlo svegliare.
Peter, da sobrio e addormentato, è un angelo con tanto di aureola.
Curiosa, gli graffio giocosamente il petto da sopra la maglietta bianca. Niente, se non un sospiro. Niente, se non fosse per la presa appena più salda sul lenzuolo che lo copre fino alla vita. Per quanto possa essere bello guardarlo per ore mentre dorme, però, devo assolutamente fare una cosa. O più che altro, vedere una persona.
Così scendo dal letto e mi vesto, lasciandolo semplicemente con un bacio sulle labbra che ormai ha smesso di infastidirlo e un pezzetto di carta attaccato allo specchio. "Sono da mia sorella, vieni da lei quando ti svegli... Macarena".
Non sono mai stata il genere di ragazza che conclude una frase con cuori, fiorellini da elementari o baci vari da serie tv. Le serie mi piacciono poco, e sono decisamente cresciuta per i cuori e cazzate varie. Firmare solo col mio nome mi viene naturale, anche perché come potrei concludere?
Ti amo, Macarena.
Mi mordo un labbro, scuotendo poi la testa e incastrando il biglietto in un angolo dello specchio. Non che non lo faccia - amarlo - ma... no. Semplicemente non posso scriverglielo in un pezzo di carta strappato da un vecchio quaderno. Non posso dirglielo così. Forse non posso dirglielo e basta, semplice.
Come posso anche solo pensare di dire all'ex ragazzo della mia ex migliore amica ora morta, che lo amo? Non posso, direi che è semplice; nonché l'unica soluzione passabile e possibile che esista. Non posso mettermi di fronte a lui, prendergli il viso tra le mani e mormorare un "ti amo" sentito con tutto il cuore, con tanto di lacrime agli occhi.
Nathan non capirebbe.
Si incazzerebbe a morte.
Probabilmente mi picchierebbe fino ad allontanarmi da sé.
Sospiro, guardandolo dallo specchio. Si gira sulla pancia, mentre mi sistemo la tracolla su una spalla. Fa un respiro profondo, muove la mano sul materasso come se stesse cercando qualcosa - o qualcuno. E continua a dormire come se niente fosse. Allora mi scappa un sorriso, prima di uscire dalla sua stanza e da quell'appartamento; prima di prendere la metropolitana e camminare per tre isolati a piedi sotto quel cielo bianco che inizia finalmente a promettere neve.
È il primo pomeriggio quando arrivo davanti a casa di mia sorella Candelaria. La sento ridere anche prima di vedere i suoi capelli rossi spezzare tutto quel candore e quel freddo. La sento cadere di sedere sul prato, e vedo Ruggero buttarlesi giocosamente addosso, facendola ridere anche più forte.
Non sono mai stata il genere di persona che riesce a dire quello che prova. Ma voglio un bene dell'anima a mia sorella. E amo Peter da sempre. Voglio bene ad Ruggero, a Jorge. Volevo bene a Alba come ad una sorella.
Eppure... non ho fatto nulla.
Mi avvicino di qualche passo, e forse schiaccio una foglia secca, ma non me ne accorgo, e non mi interessa; fatto sta che al rumore Candelaria si volta senza perdere il sorriso, poi sgrana gli occhi e dischiude le labbra. Sorpresa, decisamente. Sorpreso Ruggero, che si scosta da lei e la aiuta a tirarsi su. Sorpresi, mentre mi avvicino ancora, trattenendo le lacrime.

«Ti posso parlare?». È ora di portare un po' di luce tra le tenebre, credo.


Blind Love || Jortini||Where stories live. Discover now