Capitolo XI

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Èlise era nata nel 1778. Non era rimasta che una piccola miniatura di lei. Non la conobbi mai. Maman diceva sempre che fosse una donna graziosissima. Aveva quattordici anni quando conobbe suo marito. A Parigi c'era già aria di rivolta. Mio padre si differiva con lei di sei anni. Ovviamente, come ogni buon cittadino, fu chiamato alle armi, ad appoggiare i sanculots e ad assistere un anno dopo alla decapitazione del Re e della sua consorte. Posso affermare, senza presunzione, di essere figlia della Rivoluzione.

Iddio Onnipotente aveva così voluto che il male e il sangue di quegli anni si accumulasse nell'anima di mia madre. Come una malattia che rimane latente e si manifesta solo allo stadio terminale. Così era morta dandomi alla luce. E tutto l'odio e tutta la sofferenza erano ormai diventate parte di me. La Belva Rossa, quella vera, doveva ancora risvegliarsi.

Così, il 25 Ottobre, preparai la mia vendetta personale.

Diciotto giorni prima, avevo trovato quella scatola e tutto era stato come una sorta di reazione a catena, quell'evento aveva instillato dentro di me molto più odio verso quell'uomo e la forza per attingermi a compiere l'atto che avrebbe cambiato la mia vita per sempre.

Il nostro matrimonio era stato infelice, come la maggior parte delle unioni fatte a tavolino, comuni in quegli anni. Claire Bordeaux era deceduta per diciotto lunghi anni, adesso era giunta l'ora che, come l'araba fenice, risorgesse dalle proprie ceneri.

Tutto mi sembrava molto più semplice, adesso. Dovevo solo agire nell'ombra e nessuno avrebbe mai scoperto nulla. Alexandre era sempre ubriaco fradicio e non si sarebbe accorto della benché minima differenza dal suo solito bicchiere di vino prima di andare a dormire; il fatto che non andasse a dormire, ma bensì che cadesse addormentato sulla poltrona in salotto, è soltanto un dettaglio insignificante.

Sapevo bene cosa la mia mente fosse capace di fare, ma non fino a quale limite sarebbe riuscita ad arrivare.

Lui mi tradiva, lo fanno tutti gli uomini, quando non amano la propria moglie, e anch'io lo tradivo, anche se più psicologicamente, poiché il mio corpo apparteneva a Vincenzo e a lui soltanto.

Avevo aspettato fin troppo tempo, ma forse il tempo aveva, in quegli anni passati, creato le circostanze perfette per compiere il mio destino.

Una sera, osservando il crocifisso di mia madre, avevo notato un solco sulla parte superiore, proprio dietro il gancio che lo teneva appeso alla collana, e pressando col dito, si aprì un piccolo scompartimento che occupava l'intero volume all'interno del crocifisso, dentro vi era una fiala sottile di vetro che conteneva una strana polvere biancastra. Chissà da quanto tempo doveva essere conservata in quel ciondolo.

Aprii la fiala, dopo averla estratta dalla sua "custodia" e annusai: era chiaramente veleno. Nessun odore, nessun sapore. Silenzioso e letale.

Dalla sua consistenza simile allo zucchero, mi accorsi che il veleno in questione doveva essere cantarella, ottenuto cospargendo le interiora dei maiali di arsenico e lasciate essiccare al sole, una sostanza poco reperibile. Era l'arma perfetta.

La sera calò rapidamente, quel giorno e io cominciai a chiedermi: "E' giusto quello che sto facendo? E' quello che voglio davvero? E se la mia vita fosse questa? Se il mio destino fosse quello di venire schiacciata dalla monotonia eterna della quotidianità? Il mio cuore gridava a squarciagola, scalpitava come un toro alla corrida impaziente di essere liberato, ignaro del fatto che al di là della barriera non c'è altro che morte.

Ma in ogni caso, l'avrebbe affrontata combattendo, la Natura l'ha creato come un fiero guerriero. Muore con coraggio e un onore che soltanto Dio gli sa riconoscere, mentre gli Uomini gli strappano il cuore dal petto ancora palpitante, gli tagliano la testa, lo evirano, lo squartano.

Ebbene, se quegli stessi Uomini avrebbero ritenuto il mio gesto come qualcosa di riprovevole e mi avrebbe atteso la morte, come ad ogni comune mortale su questa Terra, dentro di me, nella mia anima, avrei sempre saputo di essere nel giusto, perché agli occhi di Dio avrei avuto quello stesso onore.

Se c'era una cosa che mi avevano sempre negato, era la libertà. E se fossi fuggita? Così. Puff. Sparire nel nulla, senza lasciare traccia. Mi avrebbero riportata al mio posto. Non potevo permetterlo. Io volevo essere libera. Era il mio unico desiderio. Con o senza Vincenzo.

Scossi il capo, mentre nel mio corpo sentivo crescere una forza a me familiare. Anche fin troppo. La stessa che mi aveva spinta a baciare B. in quella notte di luna piena, al ballo della Marchesa. La stessa che mi aveva dato il coraggio di cogliere l'attimo.

Ora quella stessa forza mi spingeva a fare quello che il mio cuore mi urlava insistentemente. Uccidere. Uccidere. Uccidere.

Presi un bicchiere da vino e ci versai dentro tutto il veleno del contenitore, poi aggiunsi dello Chardonnay, era il vino che beveva spesso Alexandre.

Mescolai ben bene con un cucchiaino e fissai per qualche secondo il calice di cristallo. Era il Santo Graal della Morte.

Raggiunsi il salotto. Lui dormiva sulla poltrona, come al solito, con le mani ciondolanti ai lati dei braccioli e la testa posata su una spalla. Posai il bicchiere sul tavolino lì accanto, mi inginocchiai davanti a lui e presi il crocifisso tra le mani. Chiusi gli occhi e pregai il Signore di perdonarmi per il gesto che stavo per compiere.

Tutto andò liscio.

Mio figlio mi appoggiò e dicemmo a tutti che mio marito si era suicidato.

Da quel giorno, ripresi in mano la mia vita. Mi comprai un abito nuovo. Ma non era un abito femminile. Era un abito maschile, fatto su misura per me.

Una settimana dopo, indossai l'abito. L'etichetta imponeva otto anni di lutto, ma a me non importava nulla dell'etichetta. Dopo essermi acconciata i capelli, mi truccai leggermente e indossai i guanti di seta bianca.













Storia di un'anima neraWhere stories live. Discover now