Capitolo 50 - Epilogo

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Siamo noi i fautori del nostro destino?

Un destino che tramava alle nostre spalle e che si plasmava anche dai nostri errori. I nostri patetici sbagli adolescenziali.
Sei adolescente e al tempo stesso eri automaticamente stupido?

Era così, forse.

Il rumore concitato dei tacchi rimbombava nel corridoio. Le mura spoglie incutevano timore, davano l'idea del dolore e della sofferenza patita dai rinchiusi. Di tanto in tanto incontravo una sentinella che mi passava accanto e mi oltrepassava con un buffo passo da fantoccio. Quel luogo non cambiava mai, nonostante fuori il mondo continuasse a vacillare tra le stagioni, inverno e primavera.
Continuava il suo corso. Non si fermava, anche se per Tania e me si era sconvolto. Quasi tutti i mercoledì venivo a trovarlo.
Gli piaceva che venissi. I giorni lì dentro erano tutti dannatamente uguali. Certe volte aveva l'impressione che fosse domenica e invece era il lunedì, e altre non era nemmeno certo di essere vivo.
Erano passati quattro mesi da quando le guardie, dopo l'assassinio di Tony Tomlison, lo avevano arrestato. L'anno di college stava per finire. Alan non seguiva più il corso di musica, dall'ultima volta che ci eravamo visti si era poi creata una voragine che mi aveva impedito di cercarlo.
Tania negli ultimi tempi non aveva fatto altro che piangere, giorno e notte, sul letto del suo fidanzato.
Stava male, molto male. Le girava la testa, chiedeva costantemente di essere lasciata sola e in pace accucciata in posizione fetale, vomitava, sveniva. Il suo corpo aveva sfiorato il limite della sopportazione, il collasso, dopo che tutta la scuola era venuta a conoscenza della violenza perpetrata nei suoi confronti.
Io mi sentivo impotente. Potevo solamente allievarle la pena raccontandole della mie visite a Josh, e sulle sue labbra riaffiorava il sorriso. Mi fermai dinanzi a una porta, e accarezzai leggermente il pomello intenta a girarlo quando una voce attirò la mia attenzione:
«Signorina!»
Alzai il volto, e osservai una delle guardie venirmi incontro col fiatone. «Signorina, sapete che non potete entrare in questa camera senza essere scortata.»
«Voglio semplicemente parlare con il detenuto R43.» mi aggiustai la borsa sulla spalla. «È possibile?»
«Credo di sì, lady.» mi spostai leggermente per fargli spazio, e lui spalancò la porta dinanzi ai miei occhi. «Aspetti dentro,» mi ordinò e mi fece il gesto con una mano di entrare. Mi chiuse la porta alle spalle e io rimasi immobile a fissare il vetro, che divideva il detenuto dal parente, come un muro in modo che si potessero parlare solamente senza osare toccarsi. Posai la borsa sul tavolo, e iniziai a misurare con calma ogni centimetro delle orribili mattonelle marroncine. Congiunsi le mani al petto e abbassai il volto, mentre il drin appena udibile del cellulare mi fece bloccare sul posto. Mi avvicinai, e cacciai da una delle tasche della borsa di pelle il cellulare.
Era un messaggio di Tania.

"Ehi, sei da Josh?"

Digitai un messaggio veloce in risposta.

"Si."

"Mi fai un favore? Mi compri una confezione di fragole? Stamattina mi è venuta una gran voglia e non posso metterla a tacere."

Dove le prendo delle fragole? Non è periodo. Non posso mica coltivarle e farle fiorire qui in America? Sarebbe impossibile, ma a quanto pare una cosa del genere necessitava di cose impossibili.

"Ok, ma non ti prometto nulla."

Riposi il cellulare nella borsa.
La porta dinanzi a me si aprì rivelando la grossa figura della guardia in divisa blu e nera e un'altra più piccola, quella di Josh.

Sei la mia chiave di violino (Vol.1) [IN REVISIONE]Where stories live. Discover now