Take your time

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Take your time
(Sam Hunt)

Ognuno di questi racconti è ispirato da una canzone, di cui contiene la musica e i frammenti. Per questo consiglio di ascoltare la canzone prima e/o mentre lo si legge.
Ecco il link della canzone: https://m.youtube.com/watch?v=iXi6IHFHeIA


I don't wanna steal your freedom
I don't wanna change your mind
I don't have to make you love me
I just wanna take your time


Mezzanotte meno un quarto.
L'orario di punta del The Moon significava un perenne brusio nella sala accompagnato dalle grida dei giocatori di biliardo.
I boccali di birra scorrevano sul bancone di legno scuro con una cadenza quasi regolare, rapidamente afferrati dalle mani ruvide degli avventori oppure portati dalle cameriere di tavolo in tavolo.
Ero seduto sullo sgabello consunto del bancone e ascoltavo la musica del vecchio jukebox che il nostalgico proprietario si rifiutava di sostituire.
Suonava Footlose di Kenny Loggins.
Alcune ragazze accennavano un balletto poco distante dai tavoli da biliardo e di tanto in tanto lanciavano occhiate agli uomini per capire con quali di loro ci potevano provare.
Anche lei era con quelle, ma stava seduta, con un sorriso imbarazzato e guardava il fondo del suo bicchiere sistemandosi i capelli dietro all'orecchio.
Solo quando un'amica la strattonava per la giacca di jeans alzava gli occhi e li faceva vagare verso la direzione indicata. Tutte le volte che succedeva, uno dei ragazzi intorno al biliardo le faceva un cenno come per assicurarsi che lei fosse ancora lì.
Bill, il proprietario zoppo, mi disse qualcosa e annuii senza farci troppo caso. Quando distolsi lo sguardo da lei, incrociai quello del ragazzo che giocava a biliardo.
Aveva stampata nelle iridi una minaccia.
Un quarto d'ora più tardi mi trovavo sul mio sgabello d'onore, con la chitarra in mano e un microfono davanti alla bocca. Il jukebox non suonava più ma nessuno sembrò notare che lo avevo sostituito.
Le dita facevano vibrare decise le corde e la mia voce roca rimbombava nelle casse del locale.
Guardavo la sua nuca sottile, e il piccolo tatuaggio nero che si delineava su quella pelle chiara.
Un forte grido esultante mi distolse dalla contemplazione e spostai gli occhi al tavolo da biliardo, dove i giocatori si battevano pacche di vittoria deridendo gli sconfitti.
Cantai fino a tarda notte, mentre pian piano il locale si svuotava. Se ne andavano sempre i più responsabili per primi, poi i mezzi ubriachi e rimanevano quelli senza un piano preciso, senza un impegno per il giorno successivo.
Dopo l'ultima canzone, Bill mi allungò un bicchiere colmo della mia ricompensa e lo feci scorrere lungo la gola secca. C'erano ancora una quindicina di persone nel bar, ma i giocatori di biliardo se ne erano andati non molto tempo prima facendo una gran baccano, troppo pieni di alcol per sapere veramente ciò che stavano facendo.
Salutai il proprietario del The Moon e mi diressi verso l'uscita con la custodia della chitarra sulla spalla. La giacca di pelle che indossavo non attutì immediatamente l'aria fredda e un brivido corse lungo la mia schiena.
O forse non fu il freddo.
Lei era accanto alla porta, con una sigaretta accesa tra le mani e l'aria spaurita.
Quando mi vide, mi rivolse uno sguardo penetrante espirando il fumo dal naso.
Le rivolsi un cenno di saluto e lei replicò: «Di solito non fumo»
La mia espressione perplessa le strappò un mezzo sorriso, così aggiunse: «Scusa, credo di essere ubriaca e quando lo sono parlo a ruota libera»
«Sei carina da ubriaca» commentai senza muovermi.
Lei assunse un atteggiamento vagamente difensivo, si guardò attorno, strinse gli occhi, li sgranò, poi commentò: «Credo che Parker ti odi, sai?»
«Lui odia chiunque si trovi in prossimità della sua ragazza, non puoi farmene una colpa»
Sorrise con aria rilassata, poi si portò la sigaretta alle labbra, ma sussultò e lasciò cadere il mozzicone a terra imprecando.
Risi sottovoce e lei si finse imbronciata.
«Si vede che non sei brava a fumare» commentai.
«Mi sono scottata, abbi un po' di compassione» replicò lei con voce lamentosa.
Raccolse educatamente il mozzicone e lo gettò nel cestino accanto alla porta, poi barcollò verso il parcheggio.
Le sue gambe sottili che sbucavano dalla giacca di jeans incespicavano e le suole di gomma dei suoi anfibi alzavano sbuffi di polvere dal terreno.
«Dove stai andando?» le chiese inseguendola.
Lei si voltò facendo svolazzare i suoi capelli, così mentre rispondeva se li sistemò dietro all'orecchio: «A casa. La cosa ti disturba?»
«Non farai un metro in queste condizioni» replicai sistemandomi la custodia sulla spalla. Lei si avvicinò ad un'auto a caso, così le corsi dietro e la bloccai piazzandomi tra lei e il veicolo.
«Forza, ti porto a casa io»
«Mhh...» mugugnò lei poco convinta, ma si voltò e ritornò sui propri passi. Credendo che mi avesse ascoltato, andai verso il mio vecchio pick-up.
Quando lo aprii mi resi conto che però stava ancora vagando per il parcheggio.
«Ethel» la richiamai.
«Che c'è?»
«Sali in macchina»
Esitò.
«Parker ti odia»
«Stai diventando noiosa» commentai sbuffando.
Le mie parole parvero convincerla perché si avvicinò instabile sulle sue gambe e spalancò la portiera del passeggero. Crollò sul sedile e abbandonò il capo sul poggiatesta.
Misi in moto il pick-up e mi infilai nella strada buia. I fanali tagliavano le tenebre perché i lampioni radi non erano sufficienti a rischiarare l'asfalto.
Per rompere il silenzio dell'abitacolo accesi la radio e la voce di Joe Strummer in Ramshackle Day Parade uscì dolcemente dalle casse.
Ethel cantava sottovoce, con gli occhi socchiusi e la testa inclinata indietro. Mi persi nel guardarla e per poco non finii fuori strada. Risvegliata dallo sbandamento, lei sollevò leggermente le palpebre, ma per il resto rimase immobile. Sentivo l'odore di fumo che emanavano i suoi vestiti e il suo profumo nascosto sotto la stoffa.
«Stai bene?» le chiesi ad un tratto.
«Perché me lo chiedi?» chiese con un'improvvisa sfumatura di aggressività nella voce.
«Sto cercando di fare conversazione» replicai difendendomi.
«Perché non chiedi direttamente ciò che vuoi sapere così accorciamo i tempi?»
Non potevo prendermela con lei perché aveva perfettamente ragione. La mia vera domanda era un'altra.
«Come va con Parker?» ritentai e la sentii abbandonarsi sul sedile.
«Bene» rispose. Conversazione chiusa.
Mi concentrai sulla strada che aveva smesso di zigzagare tra gli alberi e si era fatta più rettilinea ma non meno scura. La mia era l'unica auto che la percorreva e anche durante il giorno era quasi perennemente deserta.
«Dove ti porto?» domandai qualche istante più tardi.
Ethel smise di cantare con Billy Joe alla radio e sollevò le palpebre.
«A casa mia» il suo tono non ammetteva repliche. Sapevo che si sarebbe potuta inventare un migliaio di scuse per cui non dormiva a casa del suo ragazzo, ma se non aveva voluto sfoderarne neanche una, non sarei stato io ad insistere.
Mi diressi verso la zona abitata e fermai il pick-up davanti alla sua vecchia abitazione.
Ethel si raddrizzò con un verso e spalancò malamente la portiera, senza però alzarsi, non ancora.
«Grazie» mugugnò più in modo meccanico che perché ci tenesse davvero.
«Riesci ad alzarti?»
«Non credo di aver ancora raggiunto quel livello» replicò lei e per dimostrarmi che avevo torto si tirò in piedi.
«'notte» le dissi mentre si avvicinava alla veranda, ma lei non replicò.
Aspettai che azzeccasse la serratura con le chiavi, aprisse la porta e s'infilasse all'interno prima di rimettere in moto l'auto e defilarmi nella notte.

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