Capitolo 14

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-Dici sul serio?

-Sì, mi hai convinto.

-Inizia tu- io.

-Qual'è il problema con i tuoi genitori?- la domanda mi viene spontanea.

Sono alzata al centro della stanza, lui si alza dal letto, la sigaretta tra le dita, si ferma per pochi attimi davanti a me scrutandomi il viso e io raccolgo tutte le mie sicurezze per trovare la forza di non distogliere lo sguardo come faccio di solito. I suoi occhi sembrano lucidi, mai visti prima così. Poi passa oltre sfiorandomi appena con la spalla, i miei capelli si spostano al suo passaggio, la cosa mi provoca un brivido che mi scuote. Dennis arriva alla finestra, butta al di fuori di essa la sigaretta consumata, la chiude con forza, ho un sussulto.

-Vuoi davvero saperlo?- si poggia al vetro della finestra e mi fissa con un sorrisino e le sopracciglia in posizione di dubbio, come se la cosa non mi potesse realmente interessare.

-Solo se sei disposto a dirmelo, te lo ricordo nessuno può costringere nessuno a dire niente, sentiti libero- apro le braccia.

-E va bene- si mette più comodo sedendosi sul davanzale. -E' una cosa stupida, i miei credono che stia trascurando gli studi, lo dicono perché non sto portando nessun risultato, perché salto lezioni e passo molto del mio tempo a fare altro piuttosto che stare sui libri, e hanno ragione- mi lancia un'occhiata per vedere se sono in ascolto, lo sono, se ne accerta e riprende a parlare -L'università non è il posto per me, lo so io, lo hanno capito anche loro, ma non gli interessa, devo prendermi quella dannata laurea e aiutare nell'azienda di famiglia, in pratica non posso lasciare stare, non me lo perdoneranno mai, contano su di me.

-Lavorare in azienda- lo interrompo e mi meraviglio della mia curiosità -Lavorare in azienda è quello che vuoi?

-E' un buon posto di lavoro, dovrei considerarmi fortunato ad avere, tra virgolette, il posto riservato, ma, non ti mento, non sarei felice, la giacca e la cravatta non mi allettano molto.

-Cosa ti alletta?

Mi scocca un'occhiata ambigua, si inumidisce le labbra e poi dice -Sono più un tipo da chitarra in una mano e un biglietto aereo nell'altra.

-La tua allora è proprio una passione- presumo, e la cosa mi porta immaginarmelo suonare e cantare.

-Mi piace, sì. La mia idea di felicità e completamente diversa da quella dei miei genitori, nei miei sogni vivo di musica, ma la realtà è diversa, devo, come dicono loro, essere "responsabile". Essere musicista equivale ad essere un fallito.

Ed è forse da questo preciso momento che lo sto guardando in maniera completamente diversa rispetto a prima. Me ne accorgo io stessa e questo mi meraviglia. Come può cambiare in così breve tempo la concezione che una persona ha di un'altra.

E' oppresso dai suoi familiari, costretto ad essere qualcuno di diverso dal suo vero io, a mettere il bene altrui davanti al proprio, e la felicità personale da parte, lontano.

-Puoi suonarmi qualcosa?- chiedo innocentemente, ma da come mi sta guardando mi viene in mente quanto io possa essere stupida. -No, scusami, non credo sia il caso- anche se non sono d'accordo con gli ideali dei suoi genitori, non vorrei metterlo ulteriormente nei guai facendolo suonare, scatenando l'ira dei familiari.

Si alza, guarda la chitarra lontana, esita, ma poi si convince e la afferra saldamente, si rimette a posto sistemandosi lo strumento sulle cosce.

-Come vuole che alletti il suo udito, giovane madamigella?- il suo modo di parlare mi provoca una risata fragorosa, mi sento emozionata.

-Non so, che genere fai?

-Un genere tutto mio, faccio cover, ma mi diletto anche a scrivere di tanto in tanto.

-Allora esigo di sentire una tua canzone- mi impunto.

-Non ti ho detto però che tutto quello che ho scritto fin'ora fa schifo- sorride e io lo seguo.

-Allora fai un po' quello che ti pare!- gesticolo incitandolo a cominciare.

-Ok.

Mi preparo sedendomi sul pavimento proprio di fronte a lui, incrocio le gambe e porto una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

Dennis mette le mani in posizione, chiude gli occhi e dopo aver preso un respiro suona il primo accordo, e canta le prime parole.

-Le mie paure
Sono carezze mancate
Incertezze che tornano a un passo da me
Evitando gli errori
Sono mio padre e i suoi errori
Un bersaglio sfiorato
le paure che sento
Come distanze da un centro.

Le dita scorrono sempre più veloce, e la sua voce, prima leggermente tremolante si fa più decisa e calda.

-Sono l'amore che ho dentro
E che non so controllare
Il primo giorno di scuola di un piccolo uomo che ha vergogna a parlare
Le riflessioni sospese
Un mattino alle 7
Le paure che sento qui dentro di me sono parole mai dette.

Sbatte la mano della cassa armonica, ne segue una breve pausa silenziosa, poi ricomincia con maggior fervore quello che dovrebbe essere il ritornello, la sua voce roca e graffiante pronuncia alla perfezione tutte le parole, ciascuna di esse accompagnata dalla nota giusta, ed io rimango imbambolata a fissare a intermittenza le due dita che si muovono fluidamente, come se suonare la chitarra fosse cosa facile, e il suo viso carico di tutte le emozioni che una canzone del genere deve trasmettere.

-Tu, tu non mi hai voluto credere
Sono anni che ti aspetto
E ora non riesco a respirare più
Ora basta devi scegliere sono anni che ti aspetto

Le mie paure.

Blocca di colpo la musica e le parole. Alza lo sguardo verso di me mentre posiziona orizzontalmente la chitarra sulle sue ginocchia. Vuole che dica qualcosa? Mi trovo in seria difficoltà perché non so davvero cosa dire, non ho parole, non ci sono parole.

Di fronte al mio mutismo decide lui di dire qualcosa -Stanno bene le orecchie?

Inizialmente non capisco, nella mia mente si ripetono senza sosta gli attimi precedenti, il ritornello non mi da pace, poi quando recepisco cosa volesse dirmi mi ricompongo agitando la testa e riordinando i pensieri, dico -Cantala di nuovo, per favore.

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