Fragile.

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Stanotte ho saputo che non c'eri più: una scintilla di vita dissolta nel nulla. Mi sono risvegliata in un incubo e quando ho acquistato lucidità ho avuto la sensazione di cadere nel vuoto senza la possibilità di ancorarmi a niente. Ho le mani bagnate di lacrime e un volto incapace di esprimere una emozione specifica, provando tutto e niente nello stesso momento. Vita e morte danzano davanti a me su un filo sostenuto da incertezze. Dovrei avere fede in Dio? E' il silenzio l'unica certezza che so di avere. E' la solitudine l'unica compagna che mi sta abbracciando. E dovrei disperarmi e scalciare e urlare contro il mondo per avermi abbandonata, eppure sono qui, sola tra i soli, persa. Mi rannicchio tra le coperte anche se so che scriverti non mi aiuterà a diminuire il dolore della tua assenza, al contrario, mi ucciderà ogni giorno, in un modo nuovo e sempre più doloroso. Dopodomani ci saranno i funerali. Come dovrei immaginarti? L'ultima volta che ci siamo viste mi sorridevi appena. Sapevamo entrambe che il cancro ti avrebbe tolto tutto, anche la forza di manifestarmi il tuo amore, eppure ci provavamo lo stesso a volerci bene. Me lo facevi capire quando mi chiedevi come stavo, anche quando quella senza capelli eri tu. Me lo ricordavi ogni volta che mi rimproveravi per un brutto voto, anche se sapevi che l'unico pensiero sul quale riuscivo a concentrarmi era la consapevolezza che ti avrei persa presto. E, soprattutto, avevamo i ricordi, quelli veri, quelli prima della malattia. Ogni tanto sbirciavo l'album con le nostre foto in sala d'attesa fingendo per un momento che non fosse cambiato niente. Fingere la felicità non è stato facile, mamma. Entrare in quella sala illuminata da luce artificiale e sorriderti, ficcando le unghie nella pelle per non piangere, non è stato piacevole. Mi hai costretto a diventare un'adulta a tredici anni. Il mio problema era che capivo tutto, anche quando papà si sforzava di farmi condurre una vita normale, non accorgendosi di quanto stessi male. Non ho mai avuto amici, per te. Non mi sono mai sentita normale, per te. In un certo senso è come se ti odiassi perché senza di te mi sento inutile, mi sento niente. Ora che sei morta ho la sensazione di parlarti veramente per la prima volta, anche se so che questa lettera non la leggerai mai perché sarà sotto terra, troppo lontana perfino da te che adesso sei aria. Non ti chiedo di proteggermi né di vegliare su di me. Nonostante tutto, grazie mamma.

Rilessi la lettera più volte, mordendomi le labbra nel tentativo di arrestare le lacrime che mi rigavano le guance. Avrei tanto voluto essere in un film, di quelli che permettono di porgere l'ultimo saluto in una scena colma di pathos, segnando per l'ultima volta il confine tra ciò che sarebbe continuato a esistere e ciò che andava via, dissolvendosi in punto interrogativo chiamato morte. Invece ero a scuola quando mi telefonarono. La bidella aveva pronunciato il mio nome lentamente e un brivido mi aveva percorso la schiena, quasi fosse possibile prevedere il futuro da una sola frase. Tuo padre è di sotto. Quante volte mi sarei ripetuta quella battuta scendendo le scale, quante volte quelle cinque parole mi avrebbero svegliato la mattina, ricordandomi che tutto il dolore che provavo non sarebbe diminuito con lo scorrere del tempo. Mi manchi mamma. Mi manca la sensazione di sentirti vicina anche quando eri distante, mi mancano i tuoi sorrisi sghembi, mi manca il tuo odore di disinfettante e la tua pelle lucida, bianca come la neve. Mi manca papà che non è ritornato più lo stesso uomo di quando era accanto a te. Mi manchi tu e a dirtelo il giorno del tuo funerale fu una lettera sgualcita dalle lacrime, un foglio incapace di racchiudere le emozioni che traboccavano dall'anima.
Lasciai scivolare la lettera dentro la tua tomba, mimando con le labbra la parola addio.
Passarono dieci anni da quel maledetto 21 febbraio 2002. I miei sedici anni erano diventati ventisei, la casa che mi aveva vista crescere era stata venduta e la mia vita era proseguita in una nuova città intrecciando la strada di Alessio, mio marito da quasi due anni. Come ogni 21 febbraio, calpestai l'erba del cimitero romano alla ricerca del tuo nome finché non vidi due margherite nel portafiori, segno che papà ti aveva già dato il suo saluto.
<<Mi piacciono questi fiori, mamma>>
A parlare era una voce vellutata che profumava di innocenza, un paio di occhi celesti, coronati da stretti boccoli dorati, che mi fissavano dal basso smaniosi di ricevere attenzioni.
<<Erano i fiori preferiti di tua nonna Margherita, amore mio. Si chiamano margherite, proprio come lei>>
Strinsi la stoffa del mio cappotto per non costringermi a piangere ma la guancia di Sofia mi scaldò la mano, poggiandosi delicata sopra la mia pelle fredda.
<<Ti presento Sofia, mamma>>
E una lacrima si librò nell'aria poggiandosi sull'erba umida di pioggia. Chiusi le palpebre e immaginai i tuoi occhi azzurri sorridermi, la tua mano scaldarmi lì dove la guancia di Sofia mi trasmetteva calore. Ti vidi piegarti verso tua nipote e darle un bacio sulla fronte, poi rialzarti e fissarmi con gli occhi loquaci, desiderosi di comunicarmi la tua gioia, vogliosi di vita e nello stesso tempo coscienti di essere abbandonati alla morte. A fasciare il tuo corpo era il vestito del tuo matrimonio e le labbra erano rosse, perché una donna non era tale senza un filo di rossetto, dicevi. Eri la figura che vidi riflessa negli occhi di papà quando parlava del vostro primo incontro, eri la fotografia che ho fatto vedere a Sofia prima di portarla a conoscerti. In due parole, eri vita, mamma.
Quando aprii gli occhi il crepuscolo era stato sostituito dal blu della sera. Un insolito senso di benessere mi aveva curvato le labbra in un sorriso che trovava corrispondenza nelle piccole labbra schiuse di Sofia che lasciavano intravedere i dentini bianchi.
<<Vuoi metterli tu i fiori lì dentro?>> domandai a Sofia porgendole un mazzo di rose bianche e lillà. Alzò e abbassò la testa velocemente afferrando poi i fiori per inserirli uno per uno nel contenitore.
<<Così ci metterai una vita!>>
Gracchiò una voce segnata dal tempo. Mio padre guardò Sofia con gli occhi lucidi e si avvicinò zoppicando alla lapide di mamma.
<<Ero andato a prendere dell'acqua ma non ricordavo dove fosse la fontana. Come è cresciuta Sofia>>
Aveva la voce rotta dall'emozione. Strinsi la mano rugosa di mio padre mentre lo osservavo asciugarsi il volto con il fazzoletto di stoffa ricamato da te, mamma. Tremava leggermente e mi sorpresi a scoprirlo così fragile. In un attimo era come se la ragazzina di sedici anni fosse riaffiorata dai ricordi per vivere la seconda volta un momento che ci aveva spezzati entrambi e lo strinsi, respirai così forte il suo odore di sigaro che voletti intrappolarlo dentro di me, fare in modo che il tempo si fermasse e non lo rendesse sempre più fragile, sempre impercettibilmente più lontano dalla vita e da me. Ma non potetti farlo. Quando ci staccammo il cielo era nero e i miei occhi bruciavano, segnati probabilmente da due profonde occhiaie. Sofia tirò con la sua mano il mio vestito riportandomi al presente, ricordandomi che il futuro era in quelle due gemme di lapislazzuli che mi stavano fissando perché volevano tornare a casa.
Quella fu l'ultima volta che Sofia vide suo nonno. Morì una settimana dopo il 21 febbraio e ho sempre avuto il sospetto che desiderasse scappare dalla vita per ritornare da te. Furono seppelliti insieme e come ogni anno a colorare quel cimitero sono un mazzo di rose bianche e uno di margherite. Sofia è cresciuta e adesso frequenta l'ultimo anno di liceo scientifico. Mi duole ammettere che in tutta la vita le ho mentito una volta soltanto. Quando, quel 21 Febbraio 2011, si strofinò la manina sulla fronte e trovò le dita sporche di rosso quel colore non era dovuto a nessun graffio. Era il rossetto di sua nonna, ma questo Sofia non lo saprà mai.

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⏰ Last updated: Jan 23, 2017 ⏰

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