Breve storia triste

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Caro Kim Namjoon,

Ti vedo un po' stanco. Penso che pensi troppo. Ti tormenti così tanto da farti male da solo. Basta, no? Smettila un po', non ci vuole tanto. Abbassa l'interruttore. Chessò, stacca la spina. C'hai pure le mani fredde, sempre. Non ti arriva il sangue alle dita. Mica hai problemi di circolazione e non lo dici a nessuno, eh? Guarda che non sei figo così. Tra un po' ti diventano tutte viola. E indovina? Si staccheranno da sole!

Ti sono cresciuti i capelli. E si vede la ricrescita castano scuro. Non ti si può vedere per i corridoi. Fortuna vuole che siano in pochi ad aver notato la tua presenza. Se non alzi mano e voce, se non urli a squarciagola le tue idee, come credi che gli altri potranno conoscere la tua esistenza? Nell'intervallo vai sempre in cortile. Ti siedi sopra una delle tante panchine in legno, all'ombra di un melo. Lasci che i frutti ti caschino addosso. Sei proprio un idiota. Una volta, ti ho visto ripulirti la suola delle tue converse nere dalla polpa di una mela marcia appena pestata. Be', presta più attenzione alla strada, no? Sempre con questo sguardo fiero da chissà chi. Neanche ti conosco, ma mi stai già sulle palle. Vorrei parlarti, un giorno, solo per sapere se dovrei davvero aggiungerti alla lista di persone stupide di questa scuola o meno.

Quando ti ho visto entrare in classe con un braccio ingessato ho provato tanta invidia. Sai, non me ne sono mai rotto uno. Chissà che emozione si prova. Tu sembravi molto scocciato, e sopra uno dei tanti fogli da stampa hai premuto la tua biro nera, facendola girare più e più volte e formando così un inquieto groviglio di linee. Se c'hai un casino in testa, nel cuore o dove ti pare, parlane. Ti trovo relativamente stabile.

I nostri polpastrelli si sono sfiorati per pura casualità. Ti stavo consegnando il tuo compito di algebra. L'unico A+ della classe che, semplicemente, mi ha urlato contro quanto io faccia invece schifo. Non per nulla, ho preso una F. Il primo in classifica contro il penultimo. Tralasciando questo particolare, non so perché, per tutta la giornata ho continuato a pensare compulsivamente al nostro contatto fisico cui ho stravolto immaginando la scena come una nuova versione de "La Creazione d'Adamo". Michelangelo, scusami.

Sei una piccola stella cometa, un desiderio da esprimere, un 11 e 11. L'ho capito più tardi, osservandoti attentamente. E ti prometto che quella di oggi sarà una buona giornata. Per un semplice motivo: tu sei tu, nonostante ogni cosa, e questo basta.

Durante la pausa pranzo, ho avvisato i miei amici che sarei rimasto a scuola e, appena è scattata la campanella, sono andato a cercarti, con l'intento di sedermi vicino a te.

«Hey amico» ti ho salutato in maniera scherzosa, posando il vassoio stracolmo di cibarie sul tavolo e facendo non poco rumore.

Hai distolto lentamente lo sguardo dalla ciotolina di riso che avevi davanti agli occhi. Hai posato le bacchette, infastidito. E mi hai guardato, inarcando un sopracciglio. «Amico? Io e te non siamo "amici"» sottolineasti l'ultima parola muovendo l'indice e il medio di entrambe le mani.
Io sollevai le spalle con noncuranza «Chi se ne frega».

I giorni seguenti non hanno portato il cambiamento che ho segretamente sperato: dei nervosi «Ciao» e delle veloci occhiate. Ma riconosco di averti lasciato stordito. Pensavi di essere invisibile, giusto?

Un Giovedì, appena finito il rientro, mi sono costretto ad avvicinarmi a te. E, sopra il ponte tra la scuola e le fermate degli autobus, ti ho afferrato per l'avambraccio, cogliendoti di sorpresa. «Che vuoi?» mi hai detto infuriato. E la maniera in cui mi hai guardato successivamente, m'aveva fatto completamente ricredere sul mio intento.

«Non voglio essere dimenticato» ho risposto, sorprendendomi di me stesso.

Hai scostato la mia presa con un gesto rude. «Non ti puoi dimenticare di qualcuno se non lo hai mai ricordato».

Indossi di continuo dei pesanti chiodi neri. Manco fossi un punk-rocker. Stai lasciando i tuoi capelli diventare del loro colore naturale. Ogni tanto una margherita trova dimora tra le ancora corte ciocche dei tuoi capelli. Dormi tanto, ad ogni lezione. E non è da te. Insomma, sei o non sei quello intelligente della classe? Quello con un'ottima condotta? Un comportamento impeccabile? Cosa sono quelle profonde occhiaie sotto gli occhi? Sei un cretino. Perché non vuoi parlarmi? Ti ascolterei volentieri.

Ho immerso un dito nella carne morbida di una tua guancia. Hai avuto un brivido ma, anche questo, non ti ha fatto svegliare. «Perchè dormi così tanto?» ti ho chiesto, spingendo più a fondo il dito. «Perchè?».

A quel punto, avendo sentito un leggero fastidio, hai aperto gli occhi, ancora assonnato. «Che vuoi?» hai chiesto.

Ho spostato il dito, guardandoti sorpreso. Secondo contatto visivo della storia. «Io niente» sono andato sulla difensiva, lo ammetto. «Ma Mrs. Choi vorrebbe una relazione per dopo domani. Ha estratto a sorte i nomi per formare i gruppi. E questa ha voluto metterci insieme. Spero non sia un problema, per te».

Hai fatto un lungo lunghissimo sbuffo. «Ah» hai detto «Per quando?».

«Dopodomani».

«Ma che cazzo» ti sei lamentato. «E io dov'ero quando l'ha detto?».

«Nel mondo dei sogni» ho farfugliato, ridacchiando leggermente a causa della tua reazione.

Siamo andati a casa tua, quello stesso pomeriggio. Ho visto la tua stanza. I tuoi libri sparsi per il pavimento. Il tuo laptop, lasciato accesso dalla notte precedente. I tuoi vestiti sporchi e le tue scarpe consumate. Ma la cosa che mi è rimasta più impressa è la tua parete piena di stelle.

«Ho iniziato a disegnarle quando avevo nove anni poi mi sono fermato. Ho recentemente ripreso, vorrei arrivare fino al soffitto».

Le ho trovate ipnotiche, quelle stelle. Di varie dimensioni. Di vari colori. Fatte con i pennarelli, le matite, gli acquarelli, i pantoni. E ciò che mi ha emozionato di più è stato probabilmente immaginarti lì, di fronte a quella parete, riempire pazientemente ogni suo centimetro. Mi è sembrato di scoprirti. E di riscopriti, riguardo l'idea che mi ero fatto di te.

Mentre le ore si sono accavallate, una dietro l'altra, e il tempo è passato più velocemente del previsto, ho potuto conoscerti. Scoprirti piacevole. E, quando ti sei fermato un momento per recarti in bagno, non ho potuto resistere. Sono tornato a guardare la parete di stelle. Se potessi tornare indietro, non lo farei.

Il mio sguardo è caduto più in basso, sopra la scrivania, trovandoci poggiati diversi quaderni, fogli e scarabocchi.
«Caro me, trova il coraggio di essere te stesso» ho letto a bassa voce, sempre più curioso. «Caro me, ti renderò orgoglioso». Ho sfogliato le pagine dei libri, senza prestarvici più attenzione del dovuto, e trovando, tra di essi, alcune pastiglie. Ho contemplato a lungo la boccetta arancione. Non sono affari miei, mi sono ripetuto.

Tu hai aperto la porta proprio nel momento in cui stavo leggendo l'etichetta.

«Che stai facendo?!» hai urlato, strappandomi di mano il piccolo contenitore di vetro.

«Niente!» ho gridato a mia volta. Ma non mi hai creduto. Mi hai tirato uno schiaffo dritto dritto sulla guancia sinistra. La forza del gesto mi ha fatto perdere l'equilibrio. Poi, preso da un'insensata rabbia, hai tirato un pugno sul legno della sottile porta dello stanzino, in cui hai detto esserci solo cianfrusaglie. «Perchè mi hai colpito?» ho gridato ancora.

«Queste cose sono private! Perchè le hai lette?».

«Che differenza fa?» ho allargato le braccia «Tanto saremmo diventati comunque amici e me lo avresti detto».

Mi hai guardato. Sembravi calmo ma non lo eri. «Io non sono tuo amico» hai scandito bene ogni parola, con lentezza «Non lo sarò mai».

Non ci siamo più rivolti la parola, da quel momento, in maniera, a quanto pare, definitiva. Porti le camice, lasci il primo bottone del colletto aperto. I capelli sono ancora più lunghi. Hai sempre le stesse converse strappate. Il braccio ingessato. Gli psicofarmaci ti fanno dormire durante le lezioni. Nascondi le mani tra le maniche delle felpe. Segui con gli occhi i numerosi aerei che volano sopra la tua testa. Pesti sempre le mele. Non è cambiato nulla, nelle nostre vite. Tu sei tu, io sono io. Come se un illustratore avesse iniziato a disegnare qualcosa e poi, all'improvviso, deciso di cancellare tutto, tra di noi sembra non essere accaduto mai nulla. Le parole che ci siamo scambiati non sono state abbastanza importanti, da venire impresse nella memoria. Sono un ricordo vago. Una vibrazione instabile. Un'antenna che riceve male il segnale. Alla fine va bene così. È stata colpa mia, dopo tutto.

Gravità ZeroWhere stories live. Discover now