"Ma odo parole più nuove"

22 5 0
                                    

Lo cercavo inquietamente per la piazza e in mezzo al cielo, senza poi incontrarlo. La sua testa non s’ergeva tra le altre, ammassate e indemoniate sulla sponda dei cancelli; non s’ergeva in mezzo a tutta l’alta aria incerta. Poi si fece un tal silenzio che il mio cuore esplose in un sol colpo: la chimera miliare di volti umani pareva estendersi, allargarsi per lasciare un vuoto, in fondo a un corridoio colmo di soldati; così la favola vaniva, l’inganno del mio tempo fu scoperto ed abolito.
Ci proibirono il passaggio, ci accusarono d’affezione e malvivenza, ci beffarono, calcarono, sfidarono come fossimo belve incontenibili, bestie prossime al macello. Discesi in fretta in un cortile, rifugiandomi nell’ombra: iniziarono gli assalti, getti d’acqua all’impazzata sulla folla, grida
informi della gente senza scarpe che soltanto domandava da mangiare; tutte le apparenze innumerabili dell’acqua si spandevano nel terreno, avvolgevano gli steli, gorgogliavano veloci sulle
foglie nella sabbia. Ritiravo le mie gambe dalla vista quando Shemu’el mi si avvolse tra le braccia; una sofferenza involontaria coloriva le sue parole da cui colsi il desiderio di fuggire dall’inutile dolore. In lui vidi la liberazione, il ripudio per la prigionia, l’orrore intenso per il sacrificio imposto, la gloria per la gioia, per tutta la natura. Fu d'impatto che lo vidi scagliarsi contro la foresta, correndo, calpestando tutta l’erba appena incolta. Imitando la sua corsa lo raggiunsi. Ostinato e selvaggio partiva contro il vento, scalciando sopra il suolo. Correvamo sulla terra scivolosa,
ammaestrando i nostri istinti richiamati dalla tiepida natura; lo seguivo silenzioso, complice indisturbato della sua energica follia. In silenzio lo ammiravo, che tracciava la sua strada, con selvatica euforia ed inconsueta appartenenza a quelle terre sconosciute. S'inoltrava tra le fronde, scandagliava foglie e rami, con le gambe ritagliava la sua forma immensa e immersa nell'aria. Con intelligenza naturale mi permise di raggiungere i ricordi del bambino che son stato. Corse, corse più lontano, lo seguivo senza inciampi, nessun dubbio, solo istinto. Iniziai a sentire un perenne
scivolare d’acqua, sempre più vicino notavo il limite del bosco, folto all’imbrunire. Raggiunsi infine
il suo corpo esteso e fragile immerso nella meraviglia di un bel lago cristallino, musicante della vita
sedentaria e silenziosa che pulsava tra le onde.
«Acqua, quando infine pioverai? quando tuonerai, fulmine?».
Come Cigno di Baudelaire, ridicolo e grandioso, intaccato dal suo desiderio rigoroso e che cercava con furore la sua acqua dei natali nell'attesa del suo Dio suo creatore più clemente, prese a
smuovere la sabbia troppo tiepida per l'ora, troppo morbida al passaggio, rivolgendo gli occhi a me, spalancando le sue ali piene e impresse dalla polvere salmastra che più avanti si bagnava nel chiarore delle prime stelle. La sua forma, la sua testa e il suo calore, tutto il busto che vedevo, mi sembravano un paesaggio dai colori più sgargianti. Nei suoi abiti setosi la sua pelle misteriosa come un Sole lacerava il mio corpo e le mie labbra, sopraffatte da un languore; nei suoi occhi il bel tramonto, e dal suo naso s'estendeva un certo filtro d'ambrosìa; la sua bocca risorgeva in mezzo al cupo della sera come un calice brillante da cui bere l'eternità.

Lo colsi nelle braccia, rabbrividii sentendo le sue dita accarezzarmi, di riflesso strinsi il suo segreto avambraccio che cauto scivolò dalla mia presa spingendosi su di me ed il mio corpo. Invase la mia immagine, sconvolse i miei equilibri irrigandomi i pensieri di nuvole incessanti.
S'intromise così tanto da rendere complesso riconoscere ciascuno il proprio odore. Divorò il mio
ventre, scivolò sul mio sudore, nutrendosi di ogni ormone liberato. Chiudendo gli occhi, avvolto
dal buio, mi allungavo tanto da sentire la sua pancia agitarsi a ritmo caldo nelle mie mani, compressa dal desiderio. Prese a trascinarmi, denudarmi, calpestando quella sabbia; mi ci immerse, dentro il lago, rigirandosi nell'acqua. Le mie mani cinsero i suoi fianchi, cavalcando l'ondeggiare fluido della sua acqua sul suo corpo. Accompagnai osso per osso le mie dita sul costato, percorsi
un movimento ascendente mirato a raggiungere il suo collo. Infine distesi le mie mani sulle sue spalle, liberando la tensione, lasciandomi trascinare dalla leggera pulsione naturale che s'apprestava ad affrettarmi il cuore e faceva fremere il mio corpo svestito. «Non per molto resterò», e d’un tratto
fummo acqua, solo acqua. E nell’acqua, che pareva per entrambi scorrere in una spaventosa clessidra, ci fu un cambiamento repentino, così orribile. Divenne di color cinereo, appassivano i suoi occhi, e le labbra gli diventavano livide. Si voltò, diritto, passandosi la mano bagnata sulla fronte bruciante; esploso in un respiro ansante: pareva che nel sangue gli si fosse insinuato un tossico dolore. La sua carne sfiorì in un solo istante, le dovizie del suo corpo decadevano. Lo accompagnai di fuori, mi avvolsi sul suo corpo, come un velo. La sua debolezza lo colse d’improvviso, la stanchezza l’assalì d’un tratto, svigorito dalla corsa, dai suoi ormoni troppo attivi in mezzo al freddo, e neanche la passione riuscì più a scaldarlo; fu una semplice follia, spogliarsi e immergersi nel lago. Così parlammo ancora, ma stavolta lo ascoltavo e comprendevo ogni parola;
la sua voce m’innalzava d’intelletto e raccontava dei suoi sogni, quando quietamente riposava, la speranza di un avvenire ben migliore; «La fortuna ha imposto alla mia vita questa ed altre condizioni misere; m’è stato tolto d’ottenere, eppure ancora lo desidero. Ancora tendo perdutamente al bello. Guarda attorno cosa c’è! Qua la natura è purissima, così spontanea e antica, e adesso splende così tanto nei nostri sentimenti; le belle piante non lo sanno, gli uccelletti ci donano la voce genuinamente, e il monte là dietro ci convince e persuade così tanto senza
rendersene conto. Questa è poesia, quella smania travolgente di passione tanto elevata, così forte da ingigantirci l’animo; là dietro invece, sotto quelle luci di città, l’uomo s’è snaturato e insuperbito, seguendo false guide, decantando falsi miti».
Ci rimase il lago, piccolo giaciglio silenzioso; lo accogliemmo come un chiaro e dignitoso talamo di morte. La notte divenne un tragico silenzio, il suo respiro ed il vociare mi preoccupavano. Un biancore vivido si rifletteva sopra l’acqua, dei piccoli cristalli in fioritura circondavano la sabbia inumidita. La sua pelle pallidissima si freddava mentre gli bagnavo cautamente le labbra nerastre; arido e affievolito, ricercava tutto il mio amore, disperdendo onnipotenza col fumigare della sua anima. Faceva strani segni con le mani, tentava di acchiapparmi e avvicinarmi a lui. Mi dava un senso di terrore. Il suo corpo sobbalzava dagli spasmi muscolari. La testa s’avvilì, mi si ghiacciarono le ossa.
«Avevo il cosmo dentro l’anima», riprese, indugiando le sue lacrime celate.
«Non c’è più consolazione, mi dispiace
«Ferma gli occhi, mostrameli ancora un’altra volta!»
Vidi il mio bel viso immerso nel suo sguardo; per un attimo divenni così splendido quanto i suoi pensieri ancora non espressi! L’accarezzai rapidamente, sentivo il nostro sangue scorrere all’
unisono, fianco a fianco. Tanto freddo e così pericoloso. Rivissi la mia morte, mentre il cuore mi piangeva in gola, pulsandomi sui denti, rinnegando la realtà. Altri volti appassionati si stampavano roventi nella mia visione delirante; ogni scoppio d’afflizione percuoteva il mio cervello, batteva
forte assiduamente, ne soffrivo ritorcendomi sulla nuda terra. Lo baciai ancora, baciai i suoi occhi, ne bevvi le ultime gocce senza sentirne il gelido mortale; dissetato, purificato, abbandonai il mio animo al delirio.
A un tratto così bello, creatura della notte e figlio della passione. Sebbene fosse immobile, attorno a lui pareva vibrassero i suoi gesti, la sua voce! mi rimbombava nella testa ancora la sua voce, i suoi singhiozzi, l’incosciente tosse! Mai più nulla vi fu di me, dentro me. Lo condussi alla natura per l’eternità, in mezzo al lago; quell’anima segreta che si manteneva immobile nell’acqua, nel suo specchio che al contrario accelerava. Poi un momento lo ritrassi, rispingendolo per riva. Mi
servivano dei fiori! Quindi mi rivolsi incontro al bosco; con passi cauti oltrepassai la prima selva, ritrovandomi in un orto abbandonato, e una rimessa trascurata poco a fianco. Fronzoli di allori facevano ombra lungo il cammino, la luce mi pareva fosse un incanto paranormale, attraverso gli
occhi lacerati da ogni pianto. Tutti i fiori mi scrutavano. Ogni passo io avanzavo e più diventavano fitti, nei colori e nelle forme, nei profumi, negli aromi ipnotizzanti. Alcune piante più carnose, altre più cadenti, altre ancora si ramificavano per metri oltre lo sguardo. Tutti i fiori mi guardavano
mettendomi nel cuore uno sconforto sconfinato. I crisantemi s’innalzavano a due, apparivano di bianco, con i petali soffusi in viola: ricordavano la sua pelle, giovane e assiderata. Mi chinai per raccoglierli, sradicando quegli steli tenaci, recidendoli con l’unghia. Tornai indietro sui miei passi con le mani che gelavano e le vesti calanti. Giunsi nuovamente sulla riva, in un attimo tutto s’accese, in un sol colpo il lago brillò in un’euforia energica di luce, poi m’accorsi che il suo corpo era svanito.
Pensai m’avrebbe parlato nella notte con le sue splendide parole; mi rivolsi contro l’acqua, mi chinai sul margine bronzato, guardai in mezzo al fosco specchio il riflesso delle stelle; mi aspettavo qualche evento straordinario, ma tutto si rinfranse tiepido e intangibile, reale quanto insolito.
Febbrilmente quindi prolungarono i pensieri, m’accorsi di raggiungere uno stato nuovo di armonia, nella vicinanza di quel celeste vaneggiamento che lo scorrere dell’acqua mi donava.
La tensione del mio esilio, la tendenza umana per l’infamia, la clemenza per la solitudine mi trasformano in un demone rovente, fino a che ingenuamente non mi colse il gelo; soffrimmo tutti dell’inerzia, falsi combattenti ed invasori del confine ingiusto, nell’agitazione di bandiere
minacciose, nella guerra splendida tra gli occhi vespertini di tutti i disertori. Tutto l’entusiasmo, nutrimento della vita, dissipava in malo modo: giunse il tempo di morire, d’incedere intristito verso la fortuna. Tempo di riconoscere i nostri mali sotto lo splendore di quell’anima del cielo, pur sempre
novella. Follemente capitoleremo nell’ultima ora all’ordine di un’impura voce oscura. Sbigottiti gli occhi più non discernevano i termini e le proprietà, ma s’illusero d’abitare una mobile visione priva di misure, in cui tutta la realtà si completava nella vita lucente e liquida, sospesa in una volta celeste
galleggiante, dove una donna passò agilmente con il volto luttuoso, nobile e statuaria, luminosa lungo il seno di una pietra rossa silenziosa. Ed io come un matto nuovamente bevvi dal suo seno,
dissipando la mia fame, a lungo ancorata sul mio corpo scarno e indebolito; mi distesi nel suo livido occhio di pianto poi d’un tratto la pioggia cadde.
«O fuggitiva beltà, per il cui sguardo all'improvviso sono rinato, non potrò vederti che nell'eternità? In un altro luogo, ben lontano di qui, e troppo tardi, mai, forse! Perché ignoro dove fuggi, e tu non sai dove io vado, o te che avrei amato, o te che lo sapevi».
E tutta l’acqua che addosso mi cadeva s’imprimeva sul mio corpo, s’impregnava nella mia essenza, si
glorificava nella mia illusione, divenendo forma del mio corpo, corpo della mia forma, mondo irrevocabile
della mia fortuna; ed ecco la mia visione di bellezza e decadenza, in tutta l’onestà.

Ferma gli occhiWhere stories live. Discover now