Eppure Sentire

42 2 0
                                    

Mia sorella ha gli occhi più belli che siano mai esistiti.
Definirli “occhi azzurri” sarebbe riduttivo, perché, se fate attenzione, potete notare che al suo interno ci sono tanti colori e sfumature. Dal bordo blu scuro che definisce i contorni dell’iride si irradiano un’infinità di striature che vanno dal blu notte al verde, dal grigio al celeste; e tutto intorno alle pupille ci sono delle piccole strisce gialle che spariscono all’interno del blu.
E poi hanno una forma arrotondata, una forma che dona dolcezza ad ogni suo sguardo – anche a quelli di rimprovero che mi rivolge quando faccio qualcosa che lei non condivide.
Sono grandi e sembrano ancora più grandi grazie alle sue ciglia lunghe e folte.  
Sono occhi sinceri ed espressivi. Occhi che non riescono a dire bugie.
Ma i suoi occhi stupendi sono occhi malati.
Lo abbiamo scoperto qualche tempo fa.
Mia sorella ha sempre dovuto portare gli occhiali da vista. Ha sempre scherzato sulla sua incapacità di vedere senza quelle lenti spesse. «Sono praticamente cieca», diceva. Ma nessuno avrebbe mai potuto immaginare che quella battuta si sarebbe trasformata in una concreta possibilità. Ora, però, ne abbiamo la certezza: mia sorella perderà del tutto l’uso della vista.
E vorrei dire che ha preso questa notizia con filosofia, come ha sempre fatto per ogni cosa che le è capitata in passato. Ma questa volta non è stata in grado di fare umorismo. Federica non riesce ad accettare il suo futuro da non vedente. E come biasimarla? Chi ci riuscirebbe? Nessuno ci pensa mai, dà per scontato tutto ciò che vede, ma questo mondo ha così tante belle cose che devono essere viste.
Mentre nel futuro di mia sorella c’è solamente l’oscurità.
E anche ora, nel suo presente, c’è solamente l’oscurità.
Nei suoi occhi ora c’è il vuoto.
Federica pensa che sia troppo piccola per capire. Ma avere sedici anni non significa essere stupidi. Io capisco. E so cosa significa “depressione”. O almeno lo so adesso. Prima credevo che depressione fosse un sinonimo di tristezza. Ma mi sbagliavo.
Federica non si alza mai dal letto, se non quando mamma la costringe a scendere per mangiare. Non si toglie mai il pigiama, se non per andare a fare il suo controllo settimanale dall’oculista. Non ride più. Non piange più. Non si arrabbia più. Non litiga più nemmeno con me – e litigare con me era il suo passatempo preferito.
Non c’è più niente.
Nemmeno ora, che si è alzata dal letto per bere il caffè. So benissimo che una volta finita la sua tazzina, salirà nella nostra camera, abbasserà le serrande e tornerà a nascondersi sotto le coperte.
Non riesco più a vederla in questo stato. Allora distolgo lo sguardo e lo e rivolgo verso la finestra, dove le gocce di pioggia picchiettano sul vetro.
Ricordo di aver sempre amato la pioggia. E, no, non per restare dentro casa sotto le coperte. Quello che ho sempre amato è il poter andare fuori e giocare, incurante del freddo e della possibile febbre che avrei potuto prendermi. Assaporando la sensazione di libertà e gioia che ti percorre come un brivido, che ti scalda il sangue nonostante il freddo.
È stata proprio Federica a mostrarmi quanto bella e divertente può essere una giornata di pioggia, come quella di oggi.
Io e Federica abbiamo sette anni di differenza. E sono tantissimi. Infatti, credo di esser stata più cresciuta da mia sorella, che dai nostri genitori. Mi ha insegnato tutte le cose che contano: come truccarsi senza sembrare un clown, come si usano gli assorbenti interni, come si bacia un ragazzo, come si copia durante un compito in classe e anche come divertirsi durante la pioggia. Mi insegnato a saltare nelle pozzanghere e ridere del fango che mi macchia le gambe. Mi ha insegnato a bere la pioggia senza preoccuparmi de «i germi che provengono dall’acqua non depurata», come invece dice sempre mamma. Mi ha insegnato come mettere le mani per poter raccogliere quante più gocce possibili.
Quando pioveva, tutti i bambini del quartiere si chiudevano in casa per giocare con la playstation o il game-boy. Mentre io e mia sorella ci infilavamo le calosce di gomma colorata, gli impermeabili e ci tuffavamo sotto la pioggia e cominciavamo a giocare.
Vedo con la coda dell’occhio Federica che si alza dal tavolo e, trascinando i piedi sul pavimento, si avvia verso la nostra cameretta.
«Io vado a sdraiarmi.»
Eh, no. Questa volta non le permetterò di tornare in camera e chiudersi nel suo bozzolo fatto di coperte e buio. Se non vuole reagire, sarò io a farla reagire.
Le stringo un polso tra le mani e la trascino verso la porta dell’ingresso.
Lei inizia ad urlare: «Oh, ma sei impazzita?! Mollami!»
«No!»
Spalanco la porta ed esco fuori, senza preoccuparmi dell’umidità che so avrà effetti devastanti sui miei capelli, né delle gocce di pioggia che mi bagnano i vestiti appena presi dall’armadio, né del vento gelido che mi si appiattisce addosso.
«Laura, entra dentro, deficiente! Ti verrà un colpo.»
«No! Noi ora giochiamo sotto la pioggia. Proprio come quando eravamo piccole.»
«Sei impazzita?»
«Forse.»
«Quando fai così, dimostri di essere ancora piccola!»
«Guarda che tu hai ventitré anni. Mica cento. Andiamo, Fede, fallo per me. Fallo per te. Quando è stata l’ultima volta che hai fatto qualcosa di assurdo?»
Lei rimane in silenzio per un sacco di tempo. Abbassa lo sguardo a terra e strizza gli occhi. È una cosa che fa spesso ora: si sforza di mettere a fuoco ciò che non riesce a vedere.
Poi scuote la testa. «So che cosa stai facendo», dice.
«Cosa sto facendo?»
«Vuoi provarmi che la vita è bella e vale la pena viverla a pieno... Insomma, queste stronzate qui.»
«Ed è un problema perché...?»
«Perché lo è. La vita è bella. Almeno so che potrebbe esserlo.» Alza lo sguardo al cielo e sbuffa. Fa sempre così quando non vuole scoppiare a piangere. «Però non credo sia possibile per me crederci ancora.»
«Questa è una stronzata.»
Federica spalanca gli occhi. «Come, scusa?»
«Mi hai sentito. È una stronzata. La tua vista fa schifo. E allora? Hai altri quattro sensi perfettamente funzionanti.»
Federica sbuffa e pronuncia il mio nome con tono desolato.
Detesto quando fa così.
Allora la afferro nuovamente per il braccio e la trascino fuori.
Tante e minuscole goccioline atterrano sulle lenti rotonde dei suoi occhiali e lei inizia a strofinarle via con la manica della felpa, ma così peggiora la situazione. Con un gesto di stizza e uno sbuffo, prende la montatura tra le mani e cerca di asciugare le gocce con un angolo della maglietta del pigiama, ma non ci riesce.
«Non vedo un cavolo!» urla.
«Allora senti», le dico.
Forse è stanca di litigare. Forse non vuole più sentirmi parlare. Forse spera che la lasci in pace, in modo che possa tornare in camera a dormire. Insomma, non so bene qual è la ragione che la spinge a chiudere gli occhi e sentire la pioggia. Ma lo fa.
Le palpebre si abbassano sui suoi occhi.
Rabbrividisce per colpa del freddo. Allora si stringe maggiormente nella felpa.
Le gocce, grandi e fredde, picchiettano sulla pelle del suo viso e del mio, inzuppandoci dalla testa ai piedi.
Quando cadono, fanno un rumore diverso a seconda della superficie che toccano: un rumore metallico, quando toccano i tettucci e i cofani delle macchine; una specie di ticchettio, quando toccano i vetri delle finestre. Un tuono scoppia sopra le nostre teste e entrambe sobbalziamo. Il vento fa frusciare le foglie degli alberi, ulula e si incanala nei vicoli delle strade.
Intorno a noi c’è odore di umido, di terra, di muffa... ma non un odore è spiacevole. È soffice e delicato, come un cuscino.
Gli occhiali scivolano via dalle dita bagnate di mia sorella e cadono in terra con un ciaf. Poi, un singhiozzo prende vita nella gola di Federica e lei scoppia a piangere.
Piange e piange. Le lacrime si mischiano alla pioggia.
Piange e piange. I suoi singhiozzi vengono coperti dal fracasso dei tuoni, delle foglie che vengono mosse violentemente dal vento, della pioggia che si abbatte su tetti e su strade e su macchine e su ombrelli.
Piange e piange. E mia sorella torna a sentire.

Eppure sentireDove le storie prendono vita. Scoprilo ora