Variazione N°2-I Ragazzi del Porticciolo

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Di tutti i quartieri di Nuova Dröna, Il Porticciolo era il più sordido, e fra tutti gli isolati del quartiere, La Torre era decisamente il più umido, marcio e arrabattato

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Di tutti i quartieri di Nuova Dröna, Il Porticciolo era il più sordido, e fra tutti gli isolati del quartiere, La Torre era decisamente il più umido, marcio e arrabattato.

Dovevamo costantemente piantare altri chiodi nelle assi di legno marcio, sperando che le fibre reggessero, e andavamo in missione nei quartieri più alti del Porticciolo (cioè, tutti quanti) in cerca di nuove assi di legno che rimediavamo dagli scarti delle botteghe. Servivano a sostituire le assi più vecchie e impregnate di alghe, almeno in teoria: in pratica continuavamo a inchiodare le assi nuove su quelle vecchie, fissandole ad altre assi un po' meno vecchie e fradice sperando che quel po' di speranza riuscisse a tenere insieme il tutto.
Era compito di noi ragazzi andare a cercare le assi nuove: i grandi avevano troppo da fare a cercare di far fruttare quei tavak mefitici, buoni solo a vomitare nebbia malsana e umida che faceva marcire il legno delle casupole e le ossa dei vecchi.
Li chiamavamo tavak, laghi, ma non erano esattamente dei laghi: non c'era acqua oltre le banchine, le reti su cui crescevano i molluschi erano appese a quei lunghissimi bastoni conficcati nel terreno molti, molti metri più in basso, ma non si immergevano in un vero liquido. Era più una sorta di melma gassosa, in cui riuscivano a sopravvivere a stento le spore di quelle bestioline. Le reti servivano per dare loro un posto dove depositarsi, i grandi le impregnavano di fanghiglia perché le spore e le larve avessero qualcosa di cui nutrirsi. Dopo un paio di settimane appese lì si potevano ritirare, e poi era un gran da fare delle donne per staccare quei tristi e ostinati molluschi dalle corde. Li buttavano in grandi contenitori di acqua salata, acqua vera stavolta, e un mese dopo finalmente quelle creature erano abbastanza grasse da poter essere mangiate.
Le larve però avevano la brutta abitudine di rosicchiarsi le corde, ed ecco il motivo del gran lavoro degli adulti.
Dunque, noi bambini andavamo a caccia di assi.

Le sortite cominciavano al mattino, immediatamente dopo la colazione che per alcuni consisteva solo in una carezza della mamma, di solito cercavamo di correre via dal Porticciolo il prima possibile per avere la possibilità di vedere l'alba e godere il più possibile dei raggi del sole che toccavano le nostre case solo dalle undici all'una.
Se i nostri genitori avessero saputo che invece di andare subito a cercare le assi noi ragazzi ci buttavamo sull'erba del Parco dei Melagrani a prendere il sole limpido, saremmo stati nei guai.
Ma fuori dal Porticciolo non eravamo più i figli di qualcuno, eravamo bambini incontrollati e liberi e quindi un po' meno bambini di quanto lo fossimo a casa. Giravamo in gruppetti di cinque o sei, aguzzando la vista per trovare delle belle assi spesse, dall'aspetto solido e poco crepate, perché potessero reggere anche i chiodi dodici.
La caccia ovviamente non si limitava solo alle assi di legno: cercavamo di mettere le mani su tutto ciò che non rischiava di mandarci dietro le sbarre e talvolta anche su quello. Una merce preziosa erano le tegole: di coccio, di pietra, di metallo, quelle erano importantissime perché nelle nostre case non si infilasse la nebbia dei tavak. Ma le tegole erano costose, e difficilmente venivano lasciate accatastate fuori dalle botteghe o buttate via.
Una volta Miks de' Grigi si era infilato in un laboratorio artigiano ed era riuscito a nascondere un po' di tegole di coccio sotto la giacca larga e rattoppata. Ma mentre sgattaiolava verso l'uscita era inciampato in una biglia o non so che altro, e cadendo una tegola si era rotta facendo un gran baccano. Subito gli artigiani si erano messi a urlare, "al ladro, al ladro!" e veloci come serpenti i vigili erano apparsi sulla strada ad inseguire Miks.
Lo avevano acchiappato e sbattuto per un paio di giorni nella cella seminterrata della strada principale, il posto dove mettevano noi ragazzini dei quartieri più poveri. I nostri genitori non venivano informati, i vigili non avevano tempo da perdere al Porticciolo e inoltre ben sapevano che noialtri avremmo portato la notizia. Quando un bambino non tornava gli adulti non si allarmavano: erano certi che sarebbe riapparso da lì a qualche giorno, puzzolenti dei liquami della strada ma, spesso, con la pancia un po' più piena di prima.
Fra l'altro, quella volta Miks aveva lasciato cadere le tegole sottratte in un'aiuola concimata a terra morbida, se ne erano salvate ben quattro: noi, in onore del compagno "caduto", le avevamo raccolte ed aggiunte al bottino.


La Seminterrata era un po' una prigione, un po' una misericordia. I vigili si erano risolti a mettere lì noi ragazzini cenciosi beccati a rubare o a dar fastidio alle signore imbellettate, perché la donna che gestiva quella stanza di penitenza era stata una cuoca dell'esercito e mal sopportava la vista di bambini rachitici. Spesso noi piccoli detenuti ci vedevamo allungata una ciotola di zuppa di bucce di patata, o un bollito di scarti di pollo e funghi di prato, ed era roba molto migliore di quella che ci aspettava a casa. Un po' ci dispiaceva di non rubare tutti i giorni, perché la vecchia Gwenna ci sapeva fare con gli scarti, ma sapevamo che se uno di noi fosse stato beccato troppo spesso sarebbe stato messo nelle stanze di penitenza pubbliche, una specie di pozzi che si aprivano nel mezzo delle piazze in cui venivano sbattuti quelli che offendevano la morale, il buon costume e l'intimità altrui: il problema non era tanto stare lì a prendersi insulti e sputi dei passanti, quanto la compagnia.
Le nostre mamme ci mettevano in guardia con il nome di Tallia de' Retai, la ragazza demente che viveva all'ultimo piano della Torre: lei era stata meno di un giorno in uno di quei pozzi, e da bimba graziosa che era era tornata ritardata, tumefatta e con le gambe storte all'infuori. Noi non volevamo fare la sua fine, a sbavare e biascicare rinchiusa in qualche casa ammuffita, così limitavamo i furtarelli al minimo.
A volte però il crimine pagava eccome.

Finii nella stanza di penitenza di Gwenna perché mi ero arrampicato su un muretto di una delle case dei ricchi, per rubare la frutta che pendeva dai rami degli alberi: vedendomi lì, i vigili mi avevano tirato giù a forza e portato nella Seminterrata.
Gwenna mi aveva mollato uno scappellotto con quelle sue mani callose e arrosate, minacciandomi che la volta successiva mi sarebbe arrivata una manganellata, poi mi aveva chiuso nella prigione ed era andata a scaldare un po' di zuppa.
Il nome Seminterrata derivava dalla struttura della cella: la stazione di polizia non era tutta a livello della strada. Al piano superiore c'era soltanto l'ufficio del Direttore di Quartiere e la sala dove prendevano le deposizioni. Tutto il resto, dall'armeria alla cucina alle prigioni era più in basso, circa un metro e mezzo sotto terra, e dalle sbarre della cella si poteva vedere un bel pezzo di strada, con le scarpe dei ricchi che passavano avanti e indietro, la sozzura della via che colava all'interno e -soprattutto- si vedeva quello che alla gente cadeva in terra.
Avevo ancora le braccia abbastanza sottili da poterle infilare fra le sbarre, e lo facevo ogni qualvolta vedevo un luccichio abbastanza vicino a me. Attendevo pochi secondi perché il proprietario dell'oggetto perduto si allontanasse e poi veloce come un furetto agguantavo il ninnolo.
Il più delle volte si trattava solo di carte di caramelle, ma potevano capitare anche spiccioli, addirittur piccole spille... ma quella volta, quando aprii la mano sporca e sbucciata, rimasi rapito dalla meraviglia che mi ero ritrovato in mano.

Mirigirai fra le dita quel cilindretto verde brillante, osservando l'immagine diminuscole costruzioni imprigionate nel cristallo.
La mia vita non sarebbe più stata la stessa.    


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⏰ Ultimo aggiornamento: Jan 30, 2018 ⏰

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