Capitolo I

1.7K 126 182
                                    

Centouno.

Questo era il numero di granelli di polvere che ondeggiavano nella mia camera. Sottili filamenti visibili all'occhio umano che passeggiavano indisturbati in quei dieci metri quadrati di cui era fatta la mia vita.

Soltanto centouno.

Ogni giorno li contavo meticolosamente e mi ero quasi convinta che ormai, dopo anni di conti giornalieri, fossero sempre gli stessi granelli. Probabilmente erano dotati di un microscopico cervello, il quale di tanto in tanto formulava pensieri. Forse si erano affezionati a me e a tutti i miei drammi quotidiani.

La mia routine giornaliera mi imponeva di svegliarmi alle 6:30, esattamente trenta minuti prima del necessario, per pulire la mia camera con zelo. Dopo i primi venti minuti di frenetici movimenti mi sdraiavo vicino alla finestra, posizionata sul lato est della stanza e, aiutata dal raggio di sole che attraversava trasversalmente l'atmosfera, cominciavo a contare.

Da ben cinque anni quella camera non aveva ospitato più di centouno corpicini.

Non avevo mai capito il motivo di quella costante precisione, ma la mia mente alquanto bizzarra aveva abbozzato alcune improbabili ipotesi.

Anche quel lunedì d'autunno stava andando tutto come previsto.

6:59, ero a novantanove.

7:00, centouno.

Soddisfatta da quella mia abituale certezza, cominciai a prepararmi.

In casa tutto taceva. Mia madre e mio padre erano già in campagna per la raccolta delle castagne. Mio fratello, invece, si sarebbe svegliato dopo circa mezz'ora grazie al suono stridente di un nuovo modello di sveglia regalatogli da nostra zia per il suo sesto compleanno. Un po' lo invidiavo per quella spensieratezza che caratterizza tutti i bambini. E soprattutto mi mancava andare a scuola, svolgere i compiti a casa e sorbirmi quelle ferree marce mattutine che erano "utili a disciplinare le classi in caso di attacco", questo secondo le maestre.

Non avevo mai capito cosa intendessero tutti con la parola attacco. Talvolta immaginavo si trattasse degli attacchi dei cavalli alle carrozze che usavano tanti anni prima i signori del paese. Altre volte pensavo potesse trattarsi degli incipit delle poesie che a scuola ci costringevano a imparare a memoria. Non seppi mai cosa volessero dire con quella parola e mai ebbi il coraggio di chiederlo, poiché avevo sempre percepito una tacita irrequietezza nella pronuncia di quel termine.

A destarmi dai miei pensieri fu la sveglia di mio fratello, il quale prontamente la fece tacere con uno schiaffo.

Giunsi nella nostra camera, lo baciai sulla fronte e andai via. Sull'uscio sentii la sua flebile voce urlare il solito "ciao Saretta".

Imboccai la strada che portava al negozio di taglio e cucito più grande e vistoso di Bari. Ogni volta che entravo in quel frenetico e vasto ambiente, sentivo di dovergli molto rispetto. Come aveva potuto una diciottenne tanto poco benestante come me essere ammessa in quel posto frequentato da gente tanto altolocata? Questo non mi era dato conoscerlo.

Sapevo soltanto che un giorno, alcuni mesi addietro, una signora distinta venne a bussare a casa nostra per propormi qualche settimana di praticantato nel settore del cucito, perché secondo lei avevo le mani adatte a quel lavoro. Subito le avevo chiesto come avesse fatto a vedere le mie mani senza esserci mai incontrate prima di allora. Imbarazzata o infastidita dalla mia domanda mi rispose frettolosamente che lo aveva saputo da terze persone. Indifferente ormai a quella bizzarra situazione, semplicemente le baciai le mani e accettai l'offerta.

Dopo poche settimane, nelle quali appresi molte e meravigliose nozioni, fui assunta a tempo pieno in quel negozio d'alta sartoria.

Quel giorno vi entrai con la mia solita puntualità e, posato il cappotto su uno dei tanti appendiabiti presenti e indossato il camice da lavoro, mi diressi in laboratorio per cominciare una nuova giornata fatta di fili e aghi. Appena entrai Alba e Maria, le uniche due ragazze con cui avevo stretto amicizia, mi vennero incontro.

CentounoWhere stories live. Discover now