Capitolo 18

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L'iPhone sul comodino squillò, svegliandomi di soprassalto.
Allungai una mano, prendendo il telefono e leggendo il nome di Sergio sullo schermo.
"Ser, sono le due. Cosa diamine..."
"Marisol!", urlò Sergio.
"Cosa? Marisol cosa?", mi allarmai, spaventato dal tono di voce del mio compagno.
"Ha ... Ha avuto un incidente. Lei... L'hanno ricoverata e..."
"Cosa hai detto? Dov'è ora?", gridai.
"All'Ospedale 'La Paz'. Iker, vieni qui, ti prego.", mi supplicò Sergio sull'orlo del pianto.
"Arrivo subito.", riattaccai.
Mi vestii in due minuti e spinsi al massimo la mia Audi, correndo il più velocemente possibile verso l'ospedale che Sergio mi aveva indicato.
Nel giro di dieci minuti, avevo già posteggiato l'auto nel parcheggio dell'ospedale, ed ora stavo salendo tre scalini alla volta, per raggiungere il prima possibile il piano in cui mi avevano detto di aver portato la mia Marisol.
Vidi immediatamente Sergio, che muoveva agitato le gambe, seduto accanto ad una stanza chiusa.
"Dov'è? Dov'e lei?"
"È dentro.", rispose con un fil di voce.
"Vado da lei.", dissi serio.
"Non ti lasciano entrare. Stanno facendo degli esami.", rispose senza mai alzare lo sguardo, che teneva fisso sul pavimento.
Mi lasciai cadere sulla sedia accanto a Sergio e mi passai le mani tra i capelli.
"È tutta colpa mia...", dissi, chiudendo gli occhi.
"Se non l'avessi spinta a tornare qui, non sarebbe mai successo...", aggiunsi, in un sussurro.
In quel momento un medico uscì dalla stanzetta di fianco a noi.
"Dottore! Come sta?", chiesi immediatamente, scattando in piedi.
"È stabile. Per ulteriori accertamenti dobbiamo aspettare che si risvegli. Sempre che questo accada...", spiegò.
Sentii la terra crollarmi sotto i piedi.
"Perché c'è la possibilità che non... Che lei non...", chiesi senza nemmeno riuscire a pronunciare quelle parole.
"Dipende tutto da come il suo corpo ha reagito al colpo. Possiamo solo aspettare che..."
"Posso vederla?", lo interruppi senza voler sapere altro.
"Si, ma non la scuota nè alzi eccessivamente la voce.", chiarì il medico, prima di allontanarsi.
Entrai nella camera e la vidi.
Immobile su un lettino freddo e triste.
Mi avvicinai piano e la osservai. I lunghi capelli sparsi sul cuscino, le braccia lungo il corpo invase da flebo e apparecchi che monitoravano costantemente il battito e il flusso sanguigno, e dei grossi lividi violacei  a far contrasto con il pallore del viso.
Le sfiorai una mano e una lacrima mi attraversò il volto.
"Cosa ti hanno fatto, amore mio?", sussurrai.
Poi le accarezzai le guance, stando attento ad essere il più delicato possibile.
"Perdonami. Perdonami se non ho saputo aspettare. Sono un emerito idiota, tu meriti un'attesa lunga una vita, se necessario.", continuai, preda dei sensi di colpa e dell'angoscia che mi comprimeva lo stomaco, mentre la guardavo in quello stato.
"Ho bisogno di te, amore mio. Ho bisogno di farmi perdonare. Di farti capire quanto ti amo, di svegliarmi accanto a te la mattina e baciarti, di farti sentire quanto sei importante.".
Senza ormai riuscire a controllare le lacrime, mi sedetti accanto a lei, ed appoggiai la testa sulla parte libera del lettino, accanto alle gambe di Marisol.
"Torna da me, vita mia. Non me lo merito, lo so. Ma ti amo. E ti giuro che ho capito, ho capito tante cose. Torna qui, piccola mia, ti prego.", le sussurrai accarezzandole la mano di tanto in tanto.
Quando Sergio entrò, sollevai la testa, svelando un volto distrutto dal dolore e inondato di lacrime.
"Iker... Forse è meglio se vai a riposare. Rimango io qui con lei.", mi disse, premuroso.
"No. Non la lascio.", risposi serio stringendo più forte la mano di Marisol.
"Sono qua fuori, se vuoi che ti dia il cambio..."
"Si...", dissi, ormai senza forze.
Mi addormentai poco dopo, accanto a lei, sobbalzando al minimo spostamento d'aria che mi dava la speranza che lei potesse essersi svegliata.
Mentre le prime luci del mattino cominciavano a colorare la piccola stanza, Marisol si mosse, svegliandomi immediatamente.
"I-Iker..."
Spalancai gli occhi e corsi a chiamare il medico della sera prima. Sergio accorse concitato, insieme al dottore che immediatamente controllò i valori di Marisol, segnalati dai grossi macchinari accanto a lei
"Cosa succede...?", chiese lei con le poche forze che era riuscita a raccogliere.
"Ha avuto un incidente. Ricorda come si chiama?", le chiese il medico, piantandole una lucina negli occhi.
"Marisol..."
"E oggi che giorno è?", continuò.
"Il.... 22 ottobre..."
"Le pupille sono reattive. E sembra che non abbia riportato traumi né danni apparenti. Appena sarà più in forze le faremo altre analisi.", spiegò diplomatico il dottore.
Io e Sergio ci guardammo e tirammo un sospiro di sollievo. Mi avvicinai a lei e le strinsi una mano, allargando un sorriso sincero ma ancora distorto dalla paura di quelle ultime ore.

*******
Mi sembrava di essere in una realtà parallela, ovattata, lontana.
La testa mi scoppiava e ancora non riuscivo a capire esattamente cosa fosse accaduto.
Non ricordavo.
"È stata molto brava, signorina Ramos. Molti non sarebbero sopravvissuti ad uno schianto simile. E poi è fortunata ad avere un ragazzo così. Non le ha lasciato la mano un secondo...", sorrise per la prima volta il medico.
"Lo so...", dissi voltandomi verso Iker e sorridendogli.
Poi ebbi un rapido ricordo della sera precedente, e il cuore cominciò a battermi all'impazzata.
Mi portai una mano sul ventre, e terrorizzata guardai il dottore.
"Il... Il mio..."
"Ci dispiace, signorina. Purtroppo, per il bambino non c'è stato nulla da fare.", mi rispose, cambiando completamente espressione.

********
Alzai gli occhi, sicuro di aver frainteso.
"Bambino...?", chiesi.
"Lei era il padre?"
"Dottore, di cosa parla...?", domandai, mentre sentivo lo stomaco chiudersi.
"La signorina Ramos era incinta di poco più di tre settimane...", cominciò a spiegare.
"Il mio bambino...", sussurrò piano Marisol.
Il dottore continuava a parlarmi, mentre mi passavo nervosamente le mani tra i capelli e mi asciugavo a fatica le lacrime.
"Lo schianto purtroppo è stato molto..."
"IL MIO BAMBINO!", urlò allora Marisol, con una forza e una disperazione che gelarono il sangue a tutti i presenti nella stanza, nella quale calò immediatamente il silenzio.
"Mar...", cercò di dire Sergio, facendo un passo verso di lei.
"Dov'è il mio bambino?? Datemi il mio piccolo!", cominciò a piangere Marisol, urlando e agitandosi nel letto.
"Signorina, si calmi, il suo organismo è ancora debilitato. Non può sottoporlo a tale.."
"Riportate qui mio figlio! Voglio il mio bambino!", continuò imperterrita, urlando come mai prima d'ora.
"Dobbiamo sedarla", disse il dottore chiamando immediatamente gli anestesisti.
"Non toccatemi, non mi toccate!"
La scena che si apriva sotto i miei occhi aveva del surreale.
Non stava succedendo davvero, non potevo crederci.
Sembrava la scena di un film.
L'infermiera iniettò rapidamente un liquido trasparente nel tubicino della flebo e dopo pochi attimi, il pianto disperato di Marisol si spense, lasciandola addormentata con il viso stravolto dal dolore.
Assistei alla scena, seduto in un angolo, appoggiato al muro. Impotente e lacerato internamente dalla sofferenza.
"Mio figlio...", ripetevo ininterrottamente, con un filo di voce.
Dopo quasi un'ora, mi alzai e mi avvicinai a Marisol. Ricordare le sue grida disperate di poco prima mi fece rabbrividire.
Mi asciugai le lacrime e decisi di reagire.
Dovevo essere abbastanza forte per entrambi.
Marisol lo meritava.

Esclava de sus besosDonde viven las historias. Descúbrelo ahora