L'Ultima Cena

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Il ragazzo si pentì di essersi aggiunto al gruppo neanche venti minuti dopo essersi accomodato al tavolo. Conosceva poche persone. Davvero poche. Aveva detto “sì” per sfinimento o forse per uno sforzo da parte sua di socializzare e non rinchiudersi nella sua caverna di solitudine ricercata. Il locale era affollato di giovani universitari e sporadici adulti. Quei pochi che occupavano in silenzio le panche in legno si limitavano a bere le loro consumazioni e guardare di sbieco il chiassoso gruppo di cui oramai faceva parte. Dentro di sé provava imbarazzo, si sentiva inadatto al complesso caratteriale che lo circondava, così spontaneo e ciarliero. Il disagio che provava premeva sulla bocca dello stomaco, gli strozzava la gola e lanciava fitte dolorose all’animo. Si sforzava di sorridere, annuiva ogni tanto per poi perdersi nei suoi pensieri. Si era avvicinato con la sedia per sentire meglio, un gesto che sperava facesse capire all’amico che non era del tutto disinteressato alla partecipazione, quando in realtà era esattamente così. Provò a parlare, a dire la sua ma la voce uscì così bassa, posata e timida rispetto alle altre che si perse nella cacofonia generale. Il ragazzo si sentì sollevato pensando che il suo tentativo era fallito e che non avrebbe dovuto continuare a parlare. Lanciò un’occhiata fugace al suo amico preso da una conversazione che virava lentamente sull’osceno e l’ennesimo mattone si abbatté sul suo stomaco. “Ma senti le cazzate...”, pensò roteando gli occhi in aria e riprendendo posto vicino al tavolo. Portarono da bere. La cameriera sfilò tra i tre tavoli riuniti porgendo i bicchieri di diverse grandezze e colori. Per il ragazzo un semplice parallelepipedo a base circolare che racchiudeva un liquido trasparente allungato da cubetti di ghiaccio e gocce di succo d’arancia. Si concentrò sulla fetta dell’agrume, studiandone i dettagli, saggiandone la consistenza con le dita, assaporandone il sapore corrotto dall’alcool con la punta della lingua. L’amico gli fece una domanda. Lui rispose. Botta e risposta.

«Che cos’hai? Perché non parli?», incalzò l’amico. 

«Nulla, sto ascoltando...», rispose il ragazzo sorseggiando il suo drink. Un improvviso senso di nausea lo colpì e riuscì a mandare giù solo mezza sorsata. Da qualche giorno non si sentiva bene, la testa gli doleva più del solito e fitte allo stomaco lo tormentavano ad intervalli regolari nell’arco della giornata. Il giorno prima, preso da un attacco di nervi, vomitò sangue vicino al letto. All’improvviso, per colpa di un ricordo sgradevole a cui aveva involontariamente - a suo dire - pensato. Non sì spaventò dell’accaduto, lo reputò una cosa anormale ma di relativa importanza. “Passerà”, si disse con un’alzata di spalle. No, non erano i fastidi fisici a preoccuparlo ma ciò che sentiva nel cuore della notte, di ciò che vedeva una volta che si preparava a ricevere il sonno, chiudendo gli occhi e abbracciando il cuscino. Scene a cui non poteva credere di esserne l’autore, voci che gli parlavano in una lingua sconosciuta ma a lui comprensibile. Pensava a delle allucinazioni dovute ai tranquillanti prescritti per mitigare l’ansia ma erano troppo vivide, reali e suscitavano in lui un’angoscia che lo teneva sveglio per le successive quattro ore se o per il resto della notte. Al mattino si svegliava frastornato, intontito e con una tristezza lacerante che influiva sul resto della giornata, senza possibilità di redenzione. Quella sensazione la provava anche in quel locale dalle luci basse, ingabbiato da pareti in legno su cui vi erano stati incisi nomi e date da imprecisati clienti, davanti al tavolo bagnato da semicerchi formati dalla condensa che colava dai bicchieri ghiacciati. 

«Sì, lo so che stai ascoltando ma non puoi parlare? PARLA!», insistette severo. Il ragazzo lo fulminò con lo sguardo. 

«Se non ho nulla da dire sto zitto. Prima ho parlato ma non mi hai sentito...», replicò schiacciandosi le dita contro il tavolo. 

«Non ti capisco...», mormorò l’amico.

«Allora siamo in due». Risate sguaiate, l’amico che cerca la fonte per seguire il coro. Il ragazzo ne aveva abbastanza. Guardò l’ora e si chiese quanto dovrà camminare per tornare a casa a piedi. “La prossima volta prendo la macchina”, pensò prima di aggiungere “la prossima volta?”. Arrivarono i panini ordinati su piatti stracolmi di salse. L’odore era nauseante, forte e acre. Sembrava che fossero andati a male o che avessero fatto una sosta sul pavimento del bagno prima di essere serviti. Non riuscì neanche a dargli un morso. Una fitta lo piegò in due, il fiato mozzato. Nessuno degli astanti si accorse di nulla e lui se ne rallegrò. Restò fermo, immobile, aspettando che passasse. Lentamente il dolore diminuì d’intensità e riprese a respirare. Oramai non vedeva l’ora che passasse il tempo, sperando che una faglia nella dimensione che occupava lo strappasse dal suo seggio e lo risucchiasse nel futuro. Trasognato scarabocchiò con le dita intinte nella salsa rossa un disegno che non ricordava dove avesse visto. Un cerchio al cui interno vi era una piramide rovesciata e tutto attorno dei strani simboli. Ovviamente il disegno sul tovagliolo di carta non era altro che una successione di macchie grossolane e sbavate ma lui continuò, come in trance. Nel momento in cui vergò l’ultima runa che aveva in mente qualcosa cambiò. Lui non fu più lui, non completamente, almeno.  Sì sentì improvvisamente sollevato da terra, fluttuante e poi afferrato malamente e ricacciato dentro il suo corpo. Le voci che sussurravano nel dormiveglia animarono i suoi pensieri infarcendoli con scene grottesche. Iniziò a tremare e sentì strisciare qualcosa dentro il suo corpo, artigliarsi alle pareti del suo interno per issarsi verso l’alto. Qualcosa di oscuro e lento, che portava con sé il peso di tanti anni. Un incubo solido, di quelli che fanno sudare e delirare. Senza occhi, senza volto. Nessuna espressione se non la sola presenza infestante. Il ragazzo iniziò ad aver paura ma cercò di controllarsi. Sentì una ragazza ridere sguaiata e provò un senso di rabbia e repulsione. Una forchetta cadde a terra e nella sua testa il tintinnio argentato rimbombò come una campana percossa da un martello. In bocca aveva il sapore del ferro fuso, gli occhi lucidi. Le orecchie fischiavano e i muscoli erano in fiamme. Sì alzò di scatto, buttando la sedia dietro di lui. Aveva dei buchi esistenziali in cui era e non era. Si alternava con ciò che aveva invaso la parte intangibile del suo essere senza neanche lottare, facendogli spazio, accogliendola quasi a braccia aperte. 

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