Capitolo 5 <Carson>

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Recarmi in biblioteca fu un'esperienza davvero magnifica.

Avevo sempre creduto che luoghi come quello fossero invasi da muffa e gente con problemi a socializzare, ma la gattina che avevo scovato fra quei polverosi tomi era davvero succulenta.

Chissà cosa nasconde sotto quei brutti vestiti?

Era solo una delle molte domande che intasavano i miei pensieri. Volevo sapere tutto di lei: dal nome al numero di scarpe. Anche se le cose fondamentali le avevo già intuite.

L'involucro dimesso e semplice, che mostrava al mondo, nascondeva un animo focoso tutto da scoprire.

E da leccare...

E da possedere...

Quella prospettiva, molto divertente, mi procurò una scarica di elettricità che puntò dritta alle parti basse: la gattina senza nome aveva il potere di farmi eccitare anche a chilometri di distanza.

Cercai di sistemarmi i pantaloni come meglio potevo mentre l'ascensore concludeva la sua corsa verso il mio ufficio. L'edificio, di cui avevo comprato il centesimo piano, era un grattacielo di ultima generazione dotato di un ascensore di vetro da cui si poteva godere il panorama. La città si estendeva placida e tranquilla sotto di me, tutto il contrario di come mi sentivo io.

Appena uscito dalla biblioteca, avevo mandato un messaggio a Luke per dirgli che avevo restituito il libro e per carpire qualche informazione sulla gattina dai capelli rossi. Controllai il cellullare: non mi aveva ancora risposto.

Sospirai, preparandomi psicologicamente a ciò che mi attendeva al di là di quelle porte di metallo. Sicuramente tutti mi avrebbero subissato di attenzioni e domande, di cui io avrei fatto volentieri a meno.

«Signor McFarlan, che piacere rivederla!» Mi accolse la mia segreteria Nicole, una piacente quarantenne dai capelli tinti, che indossava un castigato tailleur come avevo ordinato tempo addietro.

«È un piacere essere tornato» risposi al saluto con un leggero sorriso mentre lei mi si affiancava, scortandomi nel mio ufficio, in fondo al corridoio.

Grazie al cielo, i miei collaboratori dovevano essere fuori per qualche vendita o sopralluogo così potevo riambientarmi con calma. Il periodo trascorso accanto a mio padre era stato lungo e breve allo stesso tempo: ci eravamo riappacificati, certo, ma avevamo passato pochi giorni assieme prima che lui spirasse.

Questo faceva male, terribilmente male, però, come al solito, riuscivo a nasconderlo così bene da celarlo anche a me stesso.

«La lascio solo così può... Se ha bisogno di qualcosa, mi chiami pure.» Si accomiató Nicole, ricordandomi il motivo per cui l'avevo assunta: la discrezione, oltre al decolleté abbondante che serviva per abbindolare alcuni compratori.

«Grazie... Io... Starò bene...» borbottai, senza alcuna reale voglia di tornare a lavorare, ma ormai ero lì e dovevo almeno controllare il lavoro del mio team prima di andarmene di nuovo.

Max, Sofya e Karim era gli agenti immobiliari più bravi del mondo, avrebbero potuto vendere igloo agli eschimesi a prezzi altissimi, ed erano competitivi quanto bastava per lavorare gomito a gomito con loro. Niente scaramucce o futili invidie, bensì una sana competitività che portava guadagni all'azienda e, di conseguenza, a loro.

Non assumevo, certo, degli stupidi.

All'ora della pausa pranzo, quando Nicole mi avvisó che sarebbe andata a mangiare un boccone al ristorante all'angolo, mio fratello si degnó di rispondermi, anche se quello che mi scrisse non mi piacque molte.

Fratellone, non a cosa tu stia pensando ma tieni lontane le tue viscide zampe da Caroline. Intanto è fidanzatissima e poi la rovineresti. Ti conosco. So come sei fatto. Ti voglio bene, però sta lontano da lei

Lanciai il cellulare dall'altra parte dell'ufficio mentre la verità contenuta nelle parole di Luke mi martellava la testa.

Aveva ragione.

Su tutta la linea.

Io avrei rovinato quella tenera gattina, ma ciò non diminuiva affatto la mia fame di lei.

La volevo come non avevo mai voluto nulla nella vita.

Prima che me ne rendessi conto, la mia mano corse sulla cerniera dei pantaloni e l'abbassó, poi me li slacciai, liberando la mia potente erezione: di rado indossavo biancheria intima. Chiusi gli occhi e lo presi fra le dita, iniziando a muoverle lentamente.

Lei era inginocchiata di fronte a me. Indossava solamente un reggiseno nero e delle mutandine di pizzo: il suo corpo era un tripudio di curve e avvallamenti.

Non portava gli occhiali così potevo vedere finalmente le sue iridi verdi cupe di desiderio.

Schiuse la bocca dalle labbra rosso cremisi e posó un lieve bacio sulla punta del pene prima di ingoiarlo con straziante indolenza.

Mi carezzó con la lingua.

Su e giù.

Dentro e fuori la sua calda boccuccia.

La fissavo intensamente mentre mi portava sull'orlo del precipizio.

Un burrone così maledettamente dolce.

Uno strapiombo in cui mi gettai a capofitto, incurante del dolore che la caduta mi avrebbe, inevitabilmente, procurato.

«Caroline...» Aprii gli occhi di scatto, invocando il suo nome, un insieme di lettere peccaminoso ed ingenuo.

Ero venuto rapidamente, ma non senza soddisfazione, nel mio ufficio, seduto alla scrivania, dove avevo combinato un disastro.

Disastro che avrei dovuto ripulire prima che Nicole tornasse dal suo pranzo.

Mi passai l'altra mano fra i capelli, un poco umidi, e ripercorsi l'immagine della gattina che aveva preso possesso della mia mente. L'avevo vista solamente per dieci minuti scarsi eppure quello scricciolo di ragazza mi aveva colpito.

Volevo spogliarla dalle sue insicurezze e non solo.

Volevo giocare con lei.

Volevo possederla sia dentro che fuori, sia il corpo che l'anima.

Un desiderio mai provato prima, così intenso da farmi male, mi invase le membra fino a stanziarsi nel cervello come un chiodo fisso, una malattia di cui non esisteva una cura.

Soprattutto perché Luke aveva ragione.

Io rovinavo tutto ciò che toccavo.

Però...

La volevo troppo per potermi fermare. E così mi comportai come il bastardo insensibile che le mie compagne di letto avevano sempre pensato che fossi.

Mi misi a caccia della mia gattina.

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