4. Incubi e regine

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Un vicolo buio, la notte si impossessava di ogni cosa. Da lontano, riusciva a vederlo mentre si immergeva in esso. Aveva paura. La sua pelle era intrinseca di terrore. Camminava ma non aveva il controllo dei suoi piedi che incespicavano su pietre di marmo bianco, consunto e opacizzato dal tempo.

Le sue pupille si muovevano in cerca di qualcosa, una presenza che non riusciva a decifrare. L'unico lampione della strada accendeva a intermittenza una luce rossastra. Deglutì una saliva che non aveva.

Durante gli attimi di luce, riusciva a vedere le mura di un palazzo abbandonato. L'intonaco era sgretolato e come squarci di una ferita, rivelavano pietre vive che si stavano consumando.

Sentì il suono di campane, si voltò di scatto e vide una chiesa bianca. I suoi cancelli erano aperti e lei pensò di rifugiarcisi. Ma le gambe non si muovevano, era lì, ferma in mezzo al vicolo e piangeva. Le sue mani cercavano una via, una frenesia si impossessò di lei, urlando tutto il suo dolore.

Qualcuno la schiaffeggiò. Un bruciore si irradiò sulle guance e due mani la strattonarono. Si guardò intorno e vide due occhi verdi che la fissavano arrabbiati. Pianse, singhiozzava paura e odio. Finché non sentì freddo. Ghiaccio nelle ossa. Ghiaccio nel sangue, ghiaccio nel cuore.

Riaprì gli occhi e capì che era stato solo un altro incubo e che la dottoressa Stone per risvegliarla le aveva aperto le finestre e creato un ambiente freddo.

«Kate, come ti senti?»

«Cosa succede?» era confusa e aveva un gran mal di testa. Doveva aver avuto un nuovo incubo, ma perché la dottoressa Stone era in camera sua?

«Urlavi, ti ha sentita tutto il piano e mi hanno chiamata. La porta era aperta.» le disse, porgendole un bicchiere d'acqua preso dal comodino.

Erano passate tre settimane da quando erano riusciti a eludere il capo e ad entrare nella squadra della missione. Rob, Max, Kevin e Anita erano già posizionati, mentre lei sarebbe ripartita l'indomani mattina. In quelle settimane si era data molto da fare, aveva collaborato nelle sedute della psicologa, aveva seguito un addestramento apposito, era dimagrita e aveva cercato di dare il meglio. Perché una volta lì, non sarebbe tornata indietro. Avrebbe trovato chi gli aveva rovinato la vita. Per lei e per Rob.

Guardò la dottoressa che le era stata vicina in quei giorni. Era stata un angelo custode, una guida. Finalmente era riuscita a dire tutto quello che non aveva mai detto. Le aveva parlato dei suoi incubi, delle sue paure, del suo rapporto con Rob.

Sì, quella donna era stata una figura quasi materna e non poteva non esserle riconoscente.

«Perché mi aiuta? Perché fa questo per me?» le chiese, mentre la osservava sistemarle le lenzuola che erano cadute a terra nella frenesia del sonno. Lei guardò Kate mentre con una mano lisciava la stoffa bianca di cotone grezzo della federa. Sospirò e la guardò quasi commossa.

«Perché mi ricordi una persona, ricordi me.» Deglutì e si strinse nella vestaglia di lino azzurro. Non aveva avuto neanche il tempo di cambiarsi, appena l'avevano chiamata era corsa in pantofole e vestaglia.

«Domattina dovrai partire presto, fa attenzione, non buttare via il tuo futuro per vendicare il tuo passato.» concluse aprendo la porta. Guardò per un'ultima volta la ragazza molto simile a lei da giovane e incontrò il suo sguardo triste. Fu Kate ad abbattere le barriere. Andò verso di lei e l'abbracciò forte.

«Ci riuscirò, darò un senso a questo dolore.»

Quando Kate parcheggiò la sua Ford bordeaux, datale in dotazione dal F

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Quando Kate parcheggiò la sua Ford bordeaux, datale in dotazione dal F.Y.R, era irrequieta. Il cuore le martellava in petto come un tamburo. C'era riuscita, era lì e ci era arrivata sola, dopo quarantuno ore di viaggio. Da Langley, la città dormitorio della Virginia, dove erano situate tutte le basi dei più importanti organi d'intelligence, era arrivata a Berkeley, una cittadina alle spalle di San Francisco, che ospita l'università dove lavorava il sospettato numero uno nel caso soprannominato Blacklist: indicava le liste che avevano trovato in un quaderno di suo padre, durante le investigazioni subito dopo la sua morte.

Si guardava intorno smarrita, non sapeva se ci sarebbe riuscita. In quelle settimane lontana da Rob, con l'aiuto della dottoressa Stone si era data molto da fare. Ma sarebbero serviti i suoi tentativi di uscire dal guscio? Avrebbe preso parte attivamente alla missione o si sarebbe messa da sola, come al solito, in un angolo a guardare gli altri fare il suo lavoro? Al momento l'unica reazione, oltre quella delle sue ginocchia tremanti, era guardare l'enorme edificio bianco davanti a sé e il viavai allegro e confusionario degli studenti in giro per il campus.

Iniziò a mangiarsi le unghie che la sera prima, Anita, in un momento fra donne, le aveva aiutato a laccare di un rosa delicato.

''Farsi notare'' era la parola d'ordine. Perché a quanto pareva, i rampolli di casa Scott erano molto in vista. Perché a quanto pareva, loro, avevano avuto un futuro che a lei e al suo migliore amico era stato negato.

Sospirò e cercò la cartellina con le schede dei figli del sospettato. Gliele aveva date Kevin la sera precedente e come al solito, non le aveva controllate. Doveva essere più precisa, doveva prendere esempio da Rechel e Anita: loro erano meticolose e non creavano mai guai. Sì, doveva iniziare a comportarsi da persona adulta e da agente efficiente, se voleva arrivare a un risultato. No, stavolta non avrebbe permesso che il disordine, dio incontrastato nella sua vita, regnasse ancora indisturbato. O almeno ci avrebbe provato.

Fu in quel momento, mentre tremava e mordeva con forza il labbro inferiore, che sentì il suo cellulare squillare. Sapeva bene chi era e sospirò prima di avviare la comunicazione con un flebile pronto. La voce che aspettava di sentire era tesa quanto lei. Ma quando Kate la sentì, si rese conto che era davvero arrivato il momento. I giochi erano iniziati senza di lei, ma aspettavano la regina per continuare. Lei con le sue fobie e le sue paure era la regina meno adatta per portare avanti quella partita, ma forse era l'unica a cui importava davvero di vincere.

«Ci sei?» disse la voce preoccupata. Lei si destò dai pensieri che le affollavano la mente, sbatté più volte le palpebre e inspirò ed espirò ansia e aria varie volte. Poi si decise e con voce flebile rispose:

«Sì, scusami ero sovrappensiero.»

«Okay, raggiungi il tuo obiettivo! ti creo un ponte.» Dopo quelle parole, la conversazione si concluse e Kate si sentì in un attimo più forte perché aveva promesso a sé stessa di uscirne con dei nomi e magari senza troppe ferite.

Il richiamo della vendettaWhere stories live. Discover now