chapter one

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John era stato arrabbiato con Sherlock molte volte prima di allora. Infatti, si aspettava sempre che il detective avrebbe detto qualcosa di crudele, indifferente oppure che sarebbe stato sconsiderato e noncurante del proprio benessere fino a praticamente impazzire. Riusciva sempre a irritare il dottore, che rispondeva con urlate furiose, lo ignorava completamente o a volte lo rimproverava. A dire la verità, essere arrabbiato con Sherlock non era solo frequente ma purtroppo costituiva una parte fondamentale della loro amicizia. Era ormai un'abitudine e quando succedeva durava poco, finendo di solito tanto velocemente quanto era iniziata raggiungendo un compromesso con qualche concessione da parte di entrambi.
Quella volta era diverso.
John non era mai stato arrabbiato con qualcuno tanto profondamente quanto lo fosse con l'uomo accanto a lui. In piedi sotto la pioggia, completamente fradicio e con lo sguardo adirato fisso sul suo coinquilino, capì di essere arrivato al limite.
Per una lunga settimana aveva dovuto sopportare la peggiore versione di Sherlock. All'inizio aveva attribuito il pessimo umore all'ennesimo caso irrisolvibile, ma quando era continuato, incessantemente, giorno dopo giorno, qualcosa dentro di lui aveva cominciato a dubitarne. Era sempre andato fiero di essere una persona paziente, ma quegli ultimi giorni gli erano parsi un interminabile girone infernale.
Sherlock lo stava ignorando.
Ed era un modo gentile di spiegare le cose; per essere più precisi, aveva cancellato la sua esistenza dalla propria mente, specialmente quando erano in giro per Londra in cerca di prove. Lo lasciava indietro, gli parlava sopra e, cose peggiore di tutte, evitava accuratamente di guardarlo negli occhi. Persino gli ingenui passanti che incontravano avrebbero potuto dire che qualcosa non andava fra loro due, anche senza sapere nulla dello stato catatonico e dell'espressione vuota che Sherlock esibiva quando erano da soli nell'appartamento. Non dormiva, non mangiava, praticamente non si muoveva dal divano (nonostante le proteste di John) e non gli parlava. Tutto ció che il biondo era riuscito ad ottenere da quando Lestrade aveva dato loro le informazioni riguardo al caso, la mattina dopo quella che era solito chiamare "L'apocalittico giorno dei postumi", erano stati grugniti, taciturni rifiuti di mangiare e dormire e, quando era fortunato, richieste di silenzio.
John aveva fatto del suo meglio per cercare di razionalizzare l'improvviso sbalzo d'umore, convincendosi che non avesse niente a che fare con la notte che avevano passato abbracciati e che la loro intera amicizia non fosse stata compromessa dal suo patetico bisogno di calore umano.
Lo aveva seguito sulle rive del Tamigi per ore, stava congelando ed era esausto. Il tutto, se possibile, era reso ancora peggiore dalla sua preoccupazione per la salute di Sherlock. Dai pochi sguardi che gli aveva rivolto aveva notato che il suo aspetto non si poteva definire in altro modo se non "malato". Il dottore dentro di lui stava impazzendo.
"Sherlock?" lo chiamó cercando di attirare la sua attenzione.
"...Sherlock?" riprovó. Quando anche la seconda volta il detective non si giró, non riuscì a trattenersi.
"Okay, che cazzo ti sta succedendo?"
L'altro continuó a camminare per la strada ormai buia.
"Che vuoi?" rispose in tono piatto e a voce tanto bassa che John riuscì appena a sentirlo attraverso il rumore scrosciante della pioggia.
"Ho da fare"
"Non mi interessa. Siamo fradici e stiamo camminando da ore, Sherlock. Non è più accettabile. Stai congelando, sei stanco, è tutta la settimana che non mangi niente... dobbiamo andare a casa." John fu sorpreso di quanto le sue argomentazioni suonassero logiche dette ad alta voce, quando nella sua testa suonavano stupide e patetiche.
"Vada a casa, dottore" disse. Le sue parole prive di emozione, fredde come il ghiaccio lo ferirono profondamente.
"Va bene, ma tu verrai con me."
"E invece no."
John non lo aveva mai disprezzato come in quel momento.
Ci mise un momento a realizzare che era stata la prima volta che Sherlock gli avesse parlato in diversi giorni, da quando il caso era iniziato. Si sentì sollevato e si odió per questo.
"Sherlock non ci avvicineremo alla soluzione del caso rovistando fra i rifiuti sotto la pioggia. So che questo è stato... impegnativo, ma non ti stai facendo del bene ammalandoti."
"Non è impegnativo." sbottó Sherlock, girandosi e guardandolo brevemente. Il labbro inferiore di John tremò sentendo l'irritazione nella voce dell'amico. L'irritazione andava bene. La preferiva all'assoluta indifferenza che gli era stata riservata fino ad allora.
"Beh sicuramente ci stai mettendo più del solito."
"Sono distratto."
"Da cosa?"
"Vattene John." il piatto disinteresse era tornato.
"No!"
"Sì. Non mi servi. Vai a casa."
"Finiscila!" urló John, pestando un piede a terra con tanta forza che gli schizzi di fango gli arrivarono alla coscia. Quando nessuno dei due parló per qualche secondo, John aprì gli occhi e gli si avvicinó.
"Sherlock?"
In risposta la figura scura si mosse in avanti, sembrando più interessata alla spazzatura buttata per terra accanto ai cassonetti che all'amico.
Improvvisamente consumato da un'ira incontenibile, John lo spinse facendoli finire entrambi a terra in mezzo al fango e ai rifiuti. Mentre lui era stato un militare, Sherlock non era mai stato allenato ma sembrava piuttosto bravo con l'autodifesa.
Non appena toccarono terra, John avvolse le dita affusolate intorno al suo collo in un goffo tentativo di strozzarlo. Immediatamente il moro reagì ribaltando la situazione e finì a ritrovarsi sopra di lui, bloccandogli le braccia, con la faccia a pochi centimetri dalla sua.
John tentó di rialzarsi ma cadde per via del fango scivoloso, trovandosi immobilizzato a terra.
A quel punto, frustrato, lo afferró per il bavero della giacca costringendolo a guardarlo. Shelrock voltó la testa.
"Guardami!" ordinó.
Per la prima volta in tutta la settimana lo sguardo di Sherlock incontró il suo.
Da quella distanza riusciva a riconoscere ogni sfumatura delle sue iridi: blu, grigio, verde.
Stavano ansimando l'uno contro la bocca dell'altro e John riusciva praticamente a sentire il suo respiro in gola. Gli occhi di Sherlock saettarono alle sue labbra per tornare a lui, con sguardo ancora più penetrante di prima. John deglutì, la bocca improvvisamente asciutta.
Il terreno era gelido e il corpo di Sherlock era schiacciato sul suo; John sentiva il viso infiammarsi. Alcune gocce d'acqua depositatesi sui ciuffi ribelli del detective scivolarono lentamente, bagnandolo.
Poi, nel momento più inopportuno possibile, la sua mente tornó ai loro bacini, premuti l'uno contro l'altro. Era consapevole di ogni centimetro di contatto fra loro corpi, ma quello era il più imbarazzante. Un'ondata di calore investì anche le guance di Sherlock, colorandole di rosso. Era la prima volta che John lo vedeva arrossire. Realizzó che dovevano aver avuto lo stesso pensiero. Eppure, nonostante la natura decisamente non-platonica della loro posizione e l'ovvia scomodità del contatto fra i loro corpi bagnati, nessuno dei due mosse un muscolo.
Presto il loro respiro rallentó e John chiuse la bocca, pur mantenendo il contatto visivo. Era vagamente consapevole che stavano respirando all'unisono, il petto che si alzava e si abbassava insieme a quello dell'altro. Al pensiero un brivido gli percorse la schiena. Sherlock lo aveva notato? Non avrebbe saputo dirlo.
Gradualmente, Sherlock spostó il braccio che teneva John bloccato, scivoló per terra accanto a lui e si alzó. Gli porse la mano non-infangata per aiutarlo ad alzarsi.
Per un lungo momento rimasero semplicemente in piedi, fermi ad osservare il fango sotto di loro che ancora conservava la loro sagoma impressa.
Il silenzio di rotto da Sherlock, che disse con voce incredibilmente pacata "Ho un capogiro"
"Okay, adesso andiamo a casa" ordinó autorevolmente John affrettandosi a sorreggerlo. Tiró il cellulare fuori dalla tasca della giacca e chiamó Lestrade per farsi venire a prendere.

***
"Mi chiedo quanto tempo ci vorrà a Lestrade per realizzare che gli abbiamo infangato completamente la macchina" commentó John non appena furono a casa.
"È quasi valsa la pena di fare un giro in quel veicolo detestabile" replicó Sherlock togliendo la giacca e buttandola a terra. John sospiró, la raccolse e la appese insieme alla propria.
Prima che potesse lamentarsene, il detective si sedette sul divano, lasciando vistose tracce di fango.
"Ehi...no! Bagnerai tutto il divano"
"Non mi interessa"
"Beh a me sì. E ti ammalerai se non ti cambi, anche se non credo si possa evitare ormai"
"Non mi interessa. Devo pensare"
"Sherlock..."
"Togliti quei dannatissimi vestiti!" urló John, arrossendo immediatamente. Sherlock piegó la testa di lato con un ghigno.
"Prima dovrai offrirmi la cena"
Per un breve momento John si chiese se non preferisse essere ignorato: almeno si sarebbe stato zitto.
"Se il tuo aspetto non fosse orribile, ti giuro che-"
"Il mio aspetto non è mai orribile"
John si coprì la faccia con le mani con un grugnito di insoddisfazione.
"Io vado a farmi una doccia." riuscì a dire "Quando tornó farai meglio a indossare qualcosa di asciutto"
"No."
"Cosa?"
"Il caso non è risolto, il Tamigi era un punto morto. Devo solo pensare. Senza distrazioni."
"Non mi interessa del tuo stupido caso! Se vuoi fingere che io non esista, va bene, ma se smetti di prenderti cura di te stesso, giuro su dio che... che..."
"Cosa?" chiese Sherlock freddamente.
"Non lo so."
"Molto minaccioso..." mormoró sarcasticamente "Non sono un bambino, John"
"No, ma io sono un dottore. Come ti aspetti di risolvere un crimine quando sei in queste condizioni? Per l'amore del cielo, guardati. Stai tremando."
"Anche tu."
"Cercavo di aiutarti!"
"Non mi serve il tuo aiuto" sbuffó Sherlock alzando gli occhi al cielo "devo pensare."
John si giró e andó verso la cucina. Aprì la credenza e prese una tazza, sbattendola sul tavolo più rumorosamente possibile senza romperla. Continuó ad armeggiare in cerca del l'occorrente per fare un tè cercando di fare rumore. Chiuse i cassetti con forza, lasció cadere le posate tintinnanti sul tavolo e tiró un calcio al frigo.
"Cosa diamine stai facendo?" domandó Sherlock mascherando la propria agitazione dietro un tono calmo; John si voltó per trovarlo in piedi di fronte a lui.
"Sto facendo un tè." rispose a denti stretti.
"Stai facendo rumore di proposito per distrarmi."
"Perchè dovrei?" chiese John innocentemente "Pensavo che non avrei mai potuto essere una distrazione per te."
Sentiva l'ira spingerlo verso terreni pericolosi, fuori controllo. Capì immediatamente che Sherlock aveva riconosciuto il riferimento alla loro conversazione nel pub. I suoi occhi si fissarono su di lui.
"Al contrario"
"Che intendi?"
"Pensavo volessi farti una doccia."
"Non cambiare discorso. È per questo che mi stai ignorando da... da quando stai lavorando al caso? Temi che ti distragga?"
"Se non intendi usare la doccia lo faró io" annunció il detective per poi dirigersi verso il bagno a passi veloci, sbattendo la porta dietro di sè. John afferró la cosa più vicina che trovó, una provetta vuota, e la lanció attraverso la stanza. Essa andó ad infrangersi contro il muro, spargendo frammenti di vetro sul pavimento. La cosa non lo risollevó.
A causa della sua esasperazione riuscì a malapena a prendere fra le mani tremanti la tazza; non appena ebbe finito di riempirla, peró, essa cadde rompendosi e rovesciando inevitabilmente il contenuto a terra insieme ai taglienti pezzi di ceramica.
Per un lungo momento rimase a fissare al casino fumante ai suoi piedi, sobbalzando quando sentì il telefono vibrare. Lo prese e lo sbloccó leggendo che si trattava di un messaggio da parte di Lestrade.
Il killer del Tamigi si è costituito. Il caso è risolto. Cerca di dirglielo gentilmente.
Nonostante la propria condizione, John non potè fare a meno di sorridere vittorioso. Forse la fortuna stava cominciando a girare dalla sua parte.

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